Se vent’anni fa venne effettivamente avviata una negoziazione tra Stato italiano e Cosa nostra per metter fine alla stagione stragista, i vertici istituzionali e politici dell’epoca non ne sapevano nulla. Giuseppe Pisanu, presidente della Commissione parlamentare antimafia, arriva a tale conclusione nelle 67 pagine di comunicazioni sui “grandi delitti e le stragi di mafia ’92-93”, presentate pochi giorni fa a palazzo San Macuto: Scalfaro, Amato e Ciampi non c’entrano, scrive Pisanu, dunque la trattativa fu avviata unicamente da uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro, quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano. Dura e immediata la reazione della Procura di Palermo, secondo cui la trattativa partì invece da un preciso input politico. A dirlo è il pm Antonino Di Matteo, il quale ha descritto un chiaro “asse tra l’ex ministro Calogero Mannino e i Carabinieri del Ros” e questi ultimi con Vito Ciancimino. Insomma, “uomini dello Stato trattarono con la mafia in nome di un’inconfessabile ragion di Stato”, spiega Di Matteo, la cui linea interpretativa è pienamente sostenuta anche da Leonardo Agueci, procuratore aggiunto presso la Procura di Palermo, contattato da IlSussidiario.net.



Dottor Agueci, condivide dunque la linea del magistrato palermitano?

L’impostazione indicata da Di Matteo è la stessa dell’intera Procura di Palermo, quindi anche del sottoscritto. E’ ormai noto che dalle indagini riguardanti la trattativa siano emersi forti e stringenti collegamenti tra pezzi dello Stato e organizzazioni mafiose, anche se adesso solo i colleghi che stanno seguendo il processo in prima persona possono sapere come questi si siano articolati e che tipo di continuità abbiano avuto. E’ però indubbio che l’interpretazione più corretta sia quella più forte e decisa dei pm di Palermo, non quella piuttosto minimale offerta da Pisanu.



La mafia, visto l’evidente indebolimento dello Stato italiano, stilò il cosiddetto “papello”, una lista di richieste per metter fine alle drammatiche stragi di quel periodo. In molti però ritengono inattendibile quel documento, ipotizzando come unico obiettivo l’attenuazione del regime carcerario 41 bis. Cosa può dirci?

Il collegamento tra la mafia e alcuni settori della politica italiana, specialmente in quel particolare periodo storico, era evidentemente molto forte e consolidato. Nel 1992 la mafia subì una forte e, per certi versi, inattesa sconfitta con la prima sentenza del maxiprocesso che portò alla condanna definitiva dei principali boss mafiosi dell’epoca e al riconoscimento vero e formale della mafia come associazione criminosa. Questo generò uno strappo molto forte.



Con quali conseguenze?

Si venne a creare una evidente destabilizzazione, che ruppe di fatto i già precari equilibri esistenti in quel momento. Da lì in poi, dopo l’uccisione dell’onorevole Lima e successivamente alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, la mafia ha senza dubbio voluto alzare il prezzo nei confronti dello Stato italiano, adottando, anche se per un arco di tempo limitato, una devastante azione di tipo prettamente terroristico. La mafia non voleva imporre il suo volere nei confronti del singolo rappresentante politico, ma dell’intera istituzione statale, quindi possiamo effettivamente immaginare che le persone che interloquivano con la mafia fossero rappresentanti dell’istituzione stessa.

Tutto il contrario di ciò che sostiene Pisanu… 

Francamente non mi riconosco in ciò che ha scritto di recente Pisanu. Il tipo di attentati effettuati in quegli anni fanno fin troppo pensare che nella compagine statale, ovviamente non coinvolta interamente, vi fossero interlocutori della mafia. Per questo motivo la linea di tutta la Procura è la stessa recentemente espressa da Di Matteo e dagli altri colleghi che seguono il processo (il pm Antonino Di Matteo, nell’udienza preliminare della trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo, ha dichiarato che l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, nel rendere dichiarazioni alla Procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta, sarebbero stati “inattendibili” e Conso, in particolare, “è stato reticente”, ndr).

Cosa pensa dei numerosi attacchi rivolti alla Procura di Palermo impegnata nell’inchiesta, provenienti anche da una parte della politica, della stampa e degli organismi rappresentativi della magistratura stessa?

Il processo in corso è estremamente delicato e difficile, tanto che alcuni colleghi, come è noto, hanno subìto in diverse occasioni forme di intimidazione personale. E’ lo stesso processo, dunque, ad esporre notevolmente i magistrati coinvolti, impegnati a districare una spinosa vicenda che risale a vent’anni fa e sui cui accertamenti vi sono stati infiniti depistaggi e ostacoli. E’ per questo che leggere commenti fortemente critici e talvolta denigratori di esponenti politici, dell’informazione o addirittura di altri magistrati di altre sedi giudiziarie che con ogni probabilità non conoscono a fondo gli atti processuali, è qualcosa a cui tutta la Procura di Palermo si spiace fortemente.

I magistrati che hanno condotto l’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia sono stati spiati e pedinati da “un’Agenzia” che potrebbe essere anche “pubblica”, ma avrebbe agito “per conto di altri”. A dirlo è Antonio Ingroia. Cosa ne pensa?

Quello che posso dire è che effettivamente si sono registrati casi individuali, poi oggetto di denunce e indagini, in cui pubblici ministeri sono stati vittime di minacce e intimidazioni avvenute anche all’interno dello stesso Palazzo di Giustizia.

Può farci qualche esempio?

Telefoni manomessi o evidenti segnali di richiesta indebita di informazioni sulla vita dei magistrati. I casi sono diversi e non iniziano certamente oggi: sono magistrato da trent’anni e posso dire che, soprattutto in concomitanza con determinati processi di una certa rilevanza, episodi del genere sono sempre avvenuti. Basti pensare che la stessa collega che ha di recente preso il posto di Ingroia qui in Procura ha immediatamente notato nella scatola del telefono evidenti segni di intrusione, il che ha portato all’apertura di un procedimento.

E sul possibile coinvolgimento dello Stato?

Il fatto che dietro vi sia un’Agenzia statale è certamente un’ipotesi, però credo che continueremo a restare nel campo delle pure impressioni soggettive.

Cosa pensa della discesa in politica dei magistrati e, soprattutto, del successivo ritorno in magistratura? 

Sono assolutamente contrario al rientro in magistratura di chi ha preso una scelta politica. Una scelta che non è solo quella di candidarsi alle elezioni, ma anche quella, eventuale, di assumere un incarico di governo, a livello nazionale o locale che sia. Sono convinto che una scelta del genere, di per sé assolutamente legittima, sia però senza possibilità di ritorno.

Un’ultima domanda: vent’anni dopo, a processo ancora aperto e purtroppo ancora senza troppe risposte, cosa le “brucia” di più di tutta questa vicenda?

Quanto avvenuto ha aperto delle ferite che bruciano ancora molto, in particolar modo per chi ha vissuto quegli eventi da molto vicino: ho incontrato Paolo Borsellino a Palermo quattro giorni prima che venisse ucciso e le posso dire che si tratta di episodi umanamente laceranti. Quello che più mi ha impressionato, però, è che spesso le stesse persone che venivano ai funerali a stringere le mani dei cari delle vittime e a dimostrarci il massimo sostegno, erano poi le stesse che, appena girate le spalle, tentavano di raggiungere altre mani, quelle sporcate dal sangue dei nostri colleghi. Sono queste le cose che fanno più male, ma è proprio questo il valore dell’indagine, quello di tentare in ogni modo di capire come sia stato possibile assistere a tutto questo.

 

(Claudio Perlini)

 

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