Il 14 gennaio Giulio Andreotti compie 94 anni. Carismatico e pragmatico protagonista della vita politica italiana dell’intera seconda metà del ventesimo secolo, il nuovo giro di boa del “Divo Giulio” si compie pochi giorni dopo il riacceso dibattito sulla presunta trattativa tra pezzi dello Stato italiano e vertici di Cosa nostra per metter fine alla stagione stragista del ’92-’93. Proprio nel 1993, con il Paese in piena Tangentopoli, il sette volte presidente del Consiglio riceve la notizia della richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti da Giovanni Spadolini, l’allora Presidente del Senato: Andreotti è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. “Accusare me di mafia – scrive il senatore a vita il 27 marzo di quell’anno – è paradossale. Come governo, e anche in prima persona, ho adottato contro i mafiosi duri provvedimenti e proposto leggi severissime ed efficaci. Dovevo attendermi la loro vendetta e, in un certo senso, è meglio così che con la lupara”. Dopo una sentenza di primo grado, emessa il 23 ottobre 1999, che lo assolve perché il fatto non sussiste, la sentenza di appello, emessa il 2 maggio 2003, stabilisce che Andreotti ha commesso “il reato di partecipazione all’associazione per delinquere” “concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980”, reato però estinto per prescrizione.



Per i fatti successivi alla primavera del 1980 arriva invece la piena assoluzione. IlSussidiario.net ha chiesto un commento a Salvatore Lupo, professore ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Palermo: “Nel 1993, quando di fatto Andreotti non ricopriva più alcun ruolo politico, assistiamo a un periodo storico che deriva dalla dissoluzione del cosiddetto “andreottismo” e, in particolar modo, dall’assassinio del luogotenente siciliano di Andreotti, Salvo Lima, il quale rappresentava l’anello di congiunzione tra la Democrazia Cristiana e i gruppi dirigenti di Cosa nostra”.



Cosa ha rappresentato l’uccisione di Lima?

L’assassinio di Lima, come altri avvenuti in quella sanguinaria stagione, derivava dal convincimento di Cosa nostra di essere stata “abbandonata” dai suoi alleati e quindi da un tentativo di punire coloro che venivano considerati “traditori” e, con ogni probabilità, di trovare nuovi interlocutori. E’ infatti un momento di passaggio ritenuto fondamentale, visto che l’uccisione di Lima fu seguita da quelle del finanziere Salvo e degli stessi Falcone e Borsellino.

Quali aspetti la convincono meno dell’attuale dibattito sulla trattativa? 



Innanzitutto, se davvero avvenne tale trattativa, vorrei sapere chi fu a condurla. Si parla tanto di “Stato” ma è evidente che gli imputati del processo non sono affatto suoi rappresentanti. Vi sono responsabilità penali individuali, ma non sappiamo chi realmente impersoni lo Stato nella cosiddetta trattativa con i vertici di Cosa nostra: come sappiamo, infatti, vengono perseguiti un uomo politico ex democristiano (Calogero Mannino), un paio di ex alti funzionari dei servizi di sicurezza (l’ex capitano dell’Arma, Giuseppe De Donno e l’ex capo del Ros, Antonio Subranni) e un ex ministro degli Interni (Nicola Mancino), ma quest’ultimo solo per falsa testimonianza. Come possiamo dunque identificare lo “Stato” italiano che avviò la presunta trattativa?

Sta dunque dicendo che è la stessa terminologia ad essere fuorviante?

Assolutamente sì. Non dimentichiamo infatti che anche Falcone e Borsellino rappresentavano lo Stato, quindi non capisco come mai questo venga considerato come quello che ha trattato con la mafia senza mai opporsi. Questa è una prima considerazione di fondo che prescinde dal risultato del processo, ma è necessario farne un’altra.

Quale?

Possiamo ormai dire con certezza, nonostante in molti affermino il contrario, che la trattativa non “salvò” la mafia, la quale anzi ne uscì pesantemente colpita, visto che tutti i più grandi boss finirono in galera e che vennero emanate durissime condanne.

Dopo il ’93 infatti la mafia di fatto interruppe completamente i propri attacchi terroristici.

Fu costretta a smettere, non aveva più le forze né tantomeno la voglia o le motivazioni necessarie. Si tratta dunque di una inevitabile conseguenza di pesanti sconfitte. Bisogna però fare un’ulteriore precisazione.

Dica.

L’opinione pubblica sembra essere ormai convinta che gli attentati nei confronti dei magistrati siano avvenuti esclusivamente nel 1992, ma le uccisioni di Falcone e Borsellino sono state anticipate da una lunghissima e micidiale sequenza di attentati messa in atto fin dai primi anni Ottanta. Come spesso accade tendiamo a dimenticare la storia che noi stessi abbiamo vissuto, una storia in cui attacchi di questo tipo erano all’ordine del giorno.

Quindi cosa rappresentano gli attentati del ’92-’93?

Sono solamente la fine, l’apice di una sequenza molto più lunga. E la stessa uccisione di Lima rappresentò un vero e proprio attacco all’andreottismo, l’atto finale di una lunga relazione di collaborazione.

Come mai la mafia ha voluto colpire in questo modo?

Perché non era soddisfatta della tutela che l’andreottismo aveva presumibilmente promesso ma che non riuscì a darle, visto che tutte le sentenze del maxiprocesso vennero approvate dalla Cassazione nonostante, a quanto sembra, vi fossero numerose promesse che ciò non sarebbe avvenuto. L’azione di Cosa nostra, quindi, è di rappresaglia e di estrema difficoltà. Per questo motivo dico che la mafia, in realtà, non ha vinto. Adesso, giunti al processo, i magistrati dovranno anche decidere cosa, all’interno di questa trattativa, sia effettivamente reato, a cominciare dalla presunta attenuazione del regime carcerario 41 bis per alcuni importanti esponenti mafiosi. 

Cosa intende?

Il fatto che alcuni boss, per una qualche ragione politica, abbiano ricevuto un diverso trattamento carcerario, non è detto che sia una reato, visto che è potere dell’amministrazione penitenziaria scegliere il tipo di carcerazione da attuare nei confronti dei vari detenuti.

C’è chi crede che la trattativa in sé non possa essere considerata un vero e proprio reato, visto che lo Stato italiano deve comunque fare il possibile per proteggere i propri cittadini.

In parte lo penso anch’io. Credo infatti che la trattativa non sia necessariamente un reato, ma che in un’operazione di questo tipo possano facilmente inserirsi dei reati. Se un latitante non viene volutamente arrestato si commette un reato, ma se qualche boss è stato escluso dal 41 bis per evitare, ad esempio, il mancato attentato allo Stadio Olimpico di Roma, allora sono dell’idea che sia stato giusto. E credo che chiunque la pensi allo stesso modo.

 

(Claudio Perlini)