Nell’appena pubblicata sentenza sul conflitto di attribuzione tra capo dello Stato e procura di Palermo (n. 1 del 2013) sono stati tracciate alcune importanti linee-guida per il nostro ordinamento costituzionale.  

Innanzi tutto, la Corte costituzionale, per la prima volta nella sua giurisprudenza, ha ricostruito in  modo davvero esaustivo il ruolo del presidente della Repubblica. 



Una lettura non scolastica, né manualistica, ma collocata e concretizzata nella Costituzione vivente. Il presidente che ne scaturisce è un potere pienamente coinvolto nelle dinamiche dei poteri e degli organi costituzionali: un potere tra i poteri. Certo, come correttamente riconosce la Corte, egli è privo di poteri di indirizzo politico, nel senso che le sue attribuzioni non implicano il potere di adottare decisioni sul merito delle scelte politiche. Il nostro è un regime parlamentare, in cui la figura presidenziale, per quanto rafforzatasi soprattutto nell’esperienza di quest’ultimo settennato, non può né deve essere assimilata al presidenzialismo, neppure, come si usa dire, “di fatto”. Ciò sarebbe una palese violazione della Costituzione. Il capo dello Stato, infatti, è un potere che deve essere rivolto a rappresentare l’unità nazionale (art. 87 Cost.). 



Per esercitare questa funzione di garante dell’equilibrio costituzionale e di “magistrato di influenza” (formula utilizzata anche nell’Assemblea costituente), la Corte costituzionale richiama un dato incontrovertibile: i poteri formali del presidente devono necessariamente affiancarsi ad attività informali che sono “pertanto inestricabilmente connesse a quelle formali”. E ciò vale ancor di più quando si tratti di attività rivolte al raccordo tra i vari poteri dello Stato. Attività che richiedono un’intensa – e, in molti casi, anche riservata – attività di comunicazione del presidente. 



Questo è un aspetto importante che smentisce una diffusa convinzione, cioè che il cd. potere di esternazione presidenziale sia un potere a sé stante, distinto dalle competenze espressamente conferite dalla Costituzione al capo dello Stato, e senza un qualche fondamento costituzionale. Invece, come si riconosce in questa sentenza, tutti i poteri presidenziali vivono e si esprimono sia in atti formali che in attività di comunicazione variamente formulate ed espresse, talora anche o necessariamente in modo riservato. La garanzia di tale riservatezza, che quindi è intrinsecamente necessaria per il corretto e pieno svolgimento delle funzioni presidenziali, deve condurre inevitabilmente a interpretare le norme di legge in modo coerente con la Costituzione. 

Qui stava il principale difetto dell’impostazione della procura: poiché la legge non prevede una specifica disposizione per il caso di specie, a parere della procura si sarebbe dovuta applicare una norma che però comportava – a causa della valutazione “in contraddittorio” della rilevanza processuale delle registrazioni captate in via indiretta – il rischio del disvelamento del contenuto di quanto detto al telefono dal capo dello Stato. Ma una tale lettura implica evidentemente il ribaltamento della precedenza logica e gerarchica su cui si fonda il costituzionalismo: prima la costituzione e poi la legge. Non prima la legge – applicata inesorabilmente dai giudici – e poi la costituzione. Soprattutto, come ha detto a chiare lettere la Corte costituzionale, esistono principi costituzionali supremi che vanno rispettati da chiunque. 

Questo significa che si deve procedere al necessario bilanciamento tra le esigenze della giustizia e gli interessi supremi delle istituzioni repubblicane. La giustizia, in altri termini, non è una variabile indipendente del sistema costituzionale; essa ne costituisce un elemento costitutivo essenziale, ma là dove sussistono esigenze di “protezione assoluta” – così dice la Corte – è inevitabile delimitare l’azione della giurisdizione. Tanto più che ciò nel caso di specie è realizzabile senza ricorrere a strappi o deroghe delle leggi, ma ricorrendo, come rileva la Corte, in via analogica a un’altra norma processuale già vigente che consente di perseguire le necessarie finalità di protezione sotto il controllo del giudice – soggetto terzo e imparziale − e senza lasciare la decisione alla volontà unilaterale del pubblico ministero. Un insegnamento anche per il legislatore.

 

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