“Io credo in Dio”. Milioni di fedeli lo ripetono ogni domenica nella professione di fede: affermazione essenziale e fondamentale che apre all’infinito mondo di rapporti con il Signore e il suo mistero. Parola di Benedetto XVI che come ogni mercoledì, dall’apertura dell’anno della fede, esplora e sviscera le fondamentali verità della fede cristiana, cercando di analizzare l’ossatura del credere in Dio, quello che è un atto e un impegno, un incontro tra “Grazia divina e responsabilità umana”.
Per fare entrare nelle capocce dure dei cattolici di oggi la bellissima esperienza del dialogo con Dio, il pontefice prova a riprendere Abramo, “il grande patriarca, il modello esemplare, il padre di tutti i credenti”. Punto di riferimento altissimo, talmente tenace nella sua fiducia da sembrare cieco, così ostinato nell’ascoltare le improbabili promesse di Dio da fare la figura del rimbambito. Perché non so voi ma quando mi raccontavano, tra le storie bibliche propinate al catechismo, quella del pastore beduino di 100 anni e più, che obbediva al suo Signore e per questo si metteva in cammino al buio, alla ricerca della terra promessa, sperando persino che il ventre sterile e avvizzito della sua vecchia moglie si piegasse alla benedizione di un figlio, qualche dubbio sulla sanità mentale di chi aveva steso il libro della Genesi mi veniva. Sapevo che era Parola di Dio, ma mi ero fatta l’idea che nella rivelazione lo scriba ci avesse messo del suo. Per non parlare della faccenda di Isacco. Ma quella è un’altra storia. Comunque l’Abramo del “lascia la tua terra e va dove ti mostrerò” mi sembrava abbastanza illogico se non inattendibile. Oggi so che era quanto di più ragionevole la Storia potesse esprimere.
Abramo, il prototipo dell’uomo obbediente e fiducioso, il radicale della fede. Il suo buio, ha spiegato nella sua catechesi il Papa, il buio dell’ignoto, viene rischiarato dalla luce di una promessa. La promessa di Dio. Abramo si fida. Crede alla prospettiva nuova del suo Signore, alla Sua benedizione, che vuol dire una terra nuova da possedere, la fecondità e un figlio, la paternità su molti popoli. Persino di fronte la decadenza del proprio corpo e il seno svuotato di Sara, sua moglie, non vacilla. Crede e si affida. Proprio questa frase mi ha fatto pensare ad un’altra storia, molto più vicina nel tempo.
La storia di Chiara Corbella Petrillo, la giovane donna morta nel giugno scorso per un carcinoma violento e invasivo. Chiara era una mamma, e con suo marito Enrico, aveva deciso di portare a termine la terza gravidanza e far nascere il suo bambino, prima di contrastare il drago maligno che la stava divorando. Aveva avuto altri due bambini, Maria e Davide, morti pochi minuti dopo la nascita perché affetti da menomazioni gravi incompatibili con la vita. Feti terminali che Chiara ed Enrico avevano accolto e accompagnato al dies natalis. La sua breve e luminosa vita è un compendio alla storia biblica di Abramo.
Anche lei, insieme a suo marito, si è fidata di un Dio che non le ha risparmiato nulla, in dolore e gioia, donandole tutto ciò che di più impegnativo e grande poteva darle, la Sua Croce. Chiara aveva visto il suo corpo gonfiarsi per accogliere un alito di vita destinato a disperdersi nel momento del distacco. Non una ma due volte, aveva dovuto accettare una fecondità a termine, la benedizione di un figlio e il dolore immediato della perdita. Quando finalmente Dio le ha concesso il bambino atteso, quello da abbracciare per più di pochi minuti, le ha chiesto di più: un calvario lungo un anno e la totalità del suo amore. Un male incurabile, insidioso, un carico di dolore insopportabile per chiunque.
Chiara si è fidata. Non ha vacillato. Mai. E prima di morire, prima di ritrovare i suoi piccoli nell’abbraccio eterno, ha scritto una lettera al figlio che avrebbe lasciato. Una lunga, intensa, dolce e bellissima lettera, in cui non ha raccontato di sogni mai avverati, dei giorni non vissuti insieme o dell’amore incompiuto di gesti, baci e carezze, ma solo della sua lunga confidenza in Dio. Una madre che come unica eredità al figlio, a cui ha letteralmente donato la propria vita, ha lasciato una sola raccomandazione: “Fidati, piccolo mio (del Signore). Ne vale la pena”.