Difficile non condividere la preoccupazione manifestata pur con grande misura dal comunicato stampa di Comunione e Liberazione per le espressioni contenute nell’ordinanza che ha disposto le misure cautelari per diverse persone imputate dei reati di cui l’ordinanza stessa fornisce una serie abbastanza lunga di indizi (mails, telefonate ecc.). Altri, nel rispetto e nell’esercizio delle loro competenze, entreranno in merito alla vicenda penale, ne determineranno gli esiti e condanneranno – se del caso – per i fatti accertati e le responsabilità di chi è coinvolto. 



Al comune cittadino – non essendo questo un tema tecnico, ma un problema di stoffa della democrazia – compete invece valutare quanto sta accadendo per chiedersi, dopo i primi moti di sconcerto, in che senso e con che basi motivazionali le appartenenze a gruppi associativi presenti nella trama della società civile, appartenenze in molti casi percepite come esperienze positive e utili alla vita quotidiana, possono diventare un elemento che viene scandagliato da parte dei pubblici poteri mentre esercitano la funzione di repressione dei reati; il comune cittadino ha quasi il dovere di chiedersi il perché si fanno indagini così estese e pervasive alla ricerca di connessioni, stili di vita  e moventi che farebbero da sfondo, o da trama di sostegno, o da generatore di irrefrenabili impulsi alla commissione dei reati stessi senza che vi sia una inequivoca utilità di tali analisi. 



Da questo modo di porgere i risultati di indagini, da questa forma espositiva che passa dai fatti ai presupposti di contesto pressoché senza spiegazioni, sembra desumersi che tali gruppi siano una sorta di primo anello di una catena che ha, alla sua fine, spesso dopo che molti anelli sono stati sgranati, la palla del galeotto. Insomma, un incubatore, un brodo primordiale, destinato – quasi obbligato – a produrre quella negatività totale per il contesto sociale che è il reato.  

Se così stanno le cose (ma ovviamente il dubbio è d’obbligo) pare convenga, al comune cittadino, non coinvolgersi con nessuno, restare chiuso nel proprio ambito privato, visto che le realtà associative (si pensi ad esempio ai partiti, corrotti per antonomasia, o alle appartenenze religiose, queste spesso in odore di perversione) paiono destinate a creare connivenze, delinquenze e non solidarietà. 



Alle domande del cittadino comune non è dato rispondere con certezza. Che sia un fatto culturale, un pregiudizio diffuso, un teorema, uno stile personale o altro (fosse anche una connessione fondata) in fondo conta relativamente poco. Conta invece riconsiderare le proprie esperienze umane, chiedersi a chi uno appartiene e che cosa si aspetta dall’essere parte di una famiglia, di una classe, di un quartiere o di un popolo sui generis, come disse Paolo VI della Chiesa, e iniziare da lì un cammino che vada al fondo delle stesse, per ritrovare in esse traccia del proprio originale appartenere, tra le poche possibilità che ci restano, oggi, per guadagnare pace, equilibrio, senso del tempo e della storia e, perché no, anche un po’ di senso della misura.