Se anche non ci si fosse messo Antonio Polito con il suo ultimo esercizio editoriale, negli ultimi 60 anni è rintracciabile sufficiente letteratura per ritenere valida la tesi esposta questa mattina da Benedetto XVI: “Non è sempre facile oggi parlare di paternità”. “Contro i papà” non è solo il titolo del volume scritto dall’ex giornalista-direttore-politico-editorialista alle prese con l’avventura saggistica sul terreno fangoso della sociologia relazionale, è anche il grido di battaglia di una intera generazione, il facile slogan di certa psicoanalisi da strapazzo e persino l’inconfessata ossessione dei geniali burocrati (imbevuti d’ideologia libertaria) che hanno pensato di annullare le differenze di genere schedando in A e B, oppure 1 e 2, gli incauti genitori di un’altrettanto inopportuno figlio. (forse asetticamente determinato come Y o 3). Viene da dire, ora anche il Papa? C’è poco da scherzare: come ben ha denunciato Ratzinger questa mattina, durante la sua abituale catechesi del mercoledì, è un tema che brucia talmente da ustionare. E non solo i neuroni di qualche analista demografico o di altri sociologi improvvisati. Famiglie a pezzi o che perdono pezzi, bilanci ininquadrabili, impegni di lavoro assorbenti e l’invasione degli ultracorpi mediatici e digitali hanno reso problematico, se non impossibile, quel rapporto naturale e costruttivo dell’essere umano che è il rapporto padre-figlio. E se la questione rimanesse confinata al piano sociologico qualche buona strategia potrebbe anche porvi rimedio. La faccenda è che investe non sono le relazioni orizzontali dell’uomo, ma anche quelle verticali. Detto in soldoni il rapporto con il cielo. Sì, perché si chiede il Papa, come è possibile presentare, immaginare, adorare e amare un Dio Padre se l’esperienza che noi abbiamo della paternità è quella frammentata, episodica, problematica, se non addirittura patologica che viene rappresentata, non senza una certa dose di compiacimento, da parte di tanti osservatori? Mancano modelli di riferimenti adeguati e la mente umana che funziona meglio per analogie, non arriva a concepire più Dio e la sua paternità.
Si è creato un buco ontologico, siamo alle prese con un “bug” esperienziale e certi figli si troveranno nella spiacevole condizione di ignorare ( nell’accezione letterale di non-conoscere) la tenerezza e l’amore di Dio Padre. Meno comunicazione, meno fiducia. E’ l’equazione messa in campo da Benedetto XVI. Meno fiducia, meno abbandono nelle mani di un Altro. Che sia qui l’incapacità cronica dell’uomo moderno di confidare nella Provvidenza, di sperare oltre l’apparente negatività del presente, di credere semplicemente in Dio? Il Papa dice una cosa vera nella sua apparente banalità: noi conosciamo tramite esperienza. Ed è ovvio che se abbiamo avuto un padre autoritario, inflessibile, indifferente o addirittura assente non ci verrà proprio immediato pensare a Dio come Padre in tutta serenità. Eppure basta dare un’occhiata alle Scritture, a quei racconti dove si parla del Padre buono che accoglie e abbraccia il figlio perduto e pentito, che ammazza addirittura il vitello grasso provocando un salasso alle casse familiari e l’indignazione del fratello dall’ubbidienza presuntuosa, per capire che la paternità divina è altro. Appunto, l’analogia regge, ma per difetto. Il Dio Padre è quello del Salmo 27, spiega Benedetto XVI, quello dell’orante che circondato dai nemici, assediato dai malvagi afferma “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”. Un Padre amorevole che “sorregge, aiuta, accoglie, perdona, salva con una fedeltà che sorpassa immensamente quella degli uomini, per aprirsi a dimensioni di eternità”. Un padre il cui amore è per sempre. Tenerezza e onnipotenza. Fortunato chi come me ricorda la sensazione del babbo che si china sul letto per rimboccare le coperte e baciarti la fronte, assicurandoti sogni in braccio agli angeli e la certezza che nulla di male potrà accaderti nonostante le ombre della notte. Assocerà per sempre l’idea di Dio al dopobarba di suo padre.