Più che una vera e propria trattativa sul 41bis, quella tra Stato e mafia è stata “una tacita e parziale intesa tra parti in conflitto”. A scriverlo è Beppe Pisanu, presidente della commissione Antimafia, al termine dell’inchiesta sulle stragi del ’92-93 e sul presunto accordo tra Stato italiano e criminalità organizzata siciliana. Possiamo dire, spiega ancora Pisanu, “che ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro e quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano. Ci furono tra le due parti convergenze tattiche, ma strategie divergenti: i carabinieri del Ros volevano far cessare le stragi, i mafiosi volevano invece svilupparle fino a piegare lo Stato”. Resta però una domanda: “Piegarlo fino a qual punto?”, si chiede Pisanu. Forse fino “all’accettazione del papello (documento con l’elenco delle richieste per interrompere la stagione delle stragi, ndr) o di qualche sua parte? A rigor di logica e a giudicare dai fatti – analizza il presidente della commissione Antimafia – non si direbbe”.



Infatti, si legge ancora, se Cosa nostra accettò una specie di trattativa a scalare, “scendendo dal papello al più tenue contropapello e da questo al solo ridimensionamento del 41bis, mantenendo però alta la minaccia terrificante delle stragi, c’è da chiedersi se il suo reale obiettivo non fosse ben altro: e cioè il ripristino di quel regime di convivenza tra mafia e Stato che si era interrotto negli anni Ottanta, dando luogo ad una controffensiva della magistratura, delle forze dell’ordine e della società civile che non aveva precedenti nella storia”. Contattato da IlSussidiario.net, Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia, commenta le parole del presidente della Commissione parlamentare Antimafia: «Pisanu è molto severo con i Ros, con Mannino e con Mancino. Viceversa, quando parla dei vertici istituzionali dell’epoca, cioè Scalfaro, Amato e Ciampi, prima afferma: “Non possiamo mettere in dubbio la loro parola”, quando affermano di non aver mai neppure sentito parlare di trattativa. Poi, però, riconosce che almeno sul “ridimensionamento” del 41 bis più che una trattativa ci fu “una tacita e parziale intesa tra le parti in conflitto”, cioè tra lo Stato e la mafia. Mi auguro che nella relazione integrale venga menzionato il caso più eclatante, quello dell’ex ministro della Giustizia Conso che, nella sua confessione, dichiarò che il 41 bis fu attenuato per assecondare l’ala moderata di Cosa Nostra. Dunque, trattativa o tacita intesa, mi sarei aspettato dal presidente della Commissione parlamentare Antimafia un giudizio politico su una stagione in cui vi furono responsabilità politiche nell’assecondare il disegno della mafia di ripristinare un regime di convivenza con lo Stato».



Infatti, nonostante i vertici istituzionali e politici del tempo, dal Presidente della Repubblica Scalfaro ai Presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, abbiano “sempre affermato di non aver mai neppure sentito parlare di trattativa”, continua Pisanu nella propria relazione, resta “il sospetto che, dopo l’uccisione dell’onorevole Lima, uomini politici siciliani, minacciati di morte, si siano attivati per indurre Cosa nostra a desistere dai suoi propositi in cambio di concessioni da parte dello Stato”, scrive Pisanu nella relazione. “In particolare Calogero Mannino, ministro per il Mezzogiorno nella prima fase della trattativa (lasciò l’incarico nel giugno del 1992), avrebbe preso contatti al tal fine col comandante del Ros generale Subranni”. 



Su Mannino “pende ora una richiesta di rinvio a giudizio per il reato aggravato di minaccia ad un corpo politico, amministrativo e giudiziario. Analoga richiesta, ma per un periodo diverso, pende su Marcello Dell’Utri. Occorre anche ricordare che Nicola Mancino, ministro dell’Interno dal giugno 1992 all’aprile 1994 è stato indicato, per sentito dire, dal pentito Brusca e da Massimo Ciancimino come il terminale politico della trattativa. Il primo lo indica stranamente associandolo al suo predecessore Rognoni che, peraltro, aveva lasciato il ministero dell’Interno nel 1983, nove anni prima dei fatti al nostro esame; il secondo è un mentitore abituale”. 

Mancino è apparso addirittura “a tratti esitante e perfino contraddittorio. La Procura di Palermo ne ha proposto il rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Le posizioni degli ex ministri Mannino e Mancino sono ancora tutte da definire in sede giudiziaria: una semplice richiesta di rinvio a giudizio non può dare corpo alle ombre. È doveroso aggiungere che l’on. Mannino è uscito con l’assoluzione piena da un precedente processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Formalmente la trattativa si concluse nel dicembre 1992 con l’arresto di Vito Ciancimino”.

Poco dopo, esattamente il 15 gennaio 1993, fu arrestato invece il capo dei capi, Totò Riina. “Se i due arresti fossero riconducibili in qualche modo alla trattativa, – si chiede dunque Pisanu – quale sarebbe stata la contropartita di Cosa nostra? La mancata perquisizione del covo di Riina e la garanzia di una tranquilla latitanza di Provenzano che, proprio per questo e per prenderne il posto, avrebbe venduto il suo capo? E alla fin fine, quale sarebbe stato il guadagno dell’astuto mediatore Vito Ciancimino? Allo stato attuale della nostra inchiesta, non abbiamo elementi per dare risposte plausibili”, conclude quindi Pisanu. 

 

(Claudio Perlini) 

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