Caro direttore,
da qualche tempo il mondo culturale che ruota attorno al Foglio di Giuliano Ferrara mostra una certa insoddisfazione. La svolta gesuitica della Chiesa cattolica, guidata dal primo latino-americano della storia, ha frenato la determinazione e gli entusiasmi provenienti dall’universo degli “atei devoti”. La preoccupazione di cui questo mondo si fa portavoce è, in realtà, più diffusa di quanto non si pensi in certi settori conservatori del cattolicesimo, attoniti per l’armistizio firmato da Francesco con la cultura moderna, convinti fino a un certo punto della continuità piena tra il pontificato del Papa tedesco e quello attuale. Francesco avrebbe sostituito la chiarezza della dottrina con l’ambiguità del discernimento, paralizzando la secolare lotta tra Chiesa e modernità in un pantano fatto di termini cristiani (come misericordia, solidarietà, coscienza) usati dal mondo in modo arbitrario e inadeguato, prestando il fianco a chi vorrebbe il cristianesimo ridotto ad una religione dei buoni sentimenti ideale per la sacrestia, ma inopportuna per la maturazione civile delle nazioni.



È in quest’ottica – di resa ad una ragione incamminata verso il nichilismo – che occorre leggere la levata di scudi che il quotidiano dell’Elefantino ha posto in essere dapprima contro il digiuno per la Siria e poi, in subordine temporale ma non qualitativo, contro il dialogo affettato tra l’ultimo monarca assoluto della terra e il fondatore di Repubblica. Con questo atteggiamento, si dolgono dalle parti di Lungotevere Raffaello, la Chiesa abbandona la sua leadership plurisecolare di paladina della ragione, intesa quasi come quarta virtù teologale, per farsi figlia del mondo, sposa infedele alla ricerca dei feriti da curare più che delle coscienze da evangelizzare.



Ferrara e i suoi amici sono persone intelligenti. Non hanno bisogno di lezioni dal primo “pretuncolo” di periferia e nemmeno dei biasimi di chi è disposto a osannare il Messia la domenica delle Palme per poi crocifiggerlo il Venerdì Santo. D’altro canto neanche Papa Francesco necessita di difensori d’ufficio, pronti ad allinearsi alla corte del potere del momento e, soprattutto, disposti a tutto pur di avere un posticino sul “carro del vincitore”. Si tratta di atteggiamenti inutili e dannosi, testimonianza di un trasformismo che, a non voler essere cattivi verso noi italiani, si potrebbe semplicemente dire che è insito nella natura umana almeno dal giorno del peccato originale.



No, io non credo che occorra stracciarsi le vesti o delimitare i confini delle affermazioni dei “foglianti”, bisogna invece entrare nel merito e dire loro la semplice verità: avete ragione. Il mondo ateo-devoto è l’unico che ha evidenziato con preoccupazione, senza piaggeria e senza il timore di cadere nel fuoco dell’eresia, che – effettivamente – nell’agenda della Chiesa qualcosa è cambiato. 

Non si tratta dell’improvvisa rivincita del cattolicesimo democratico, sepolto dal cardinal Ruini nell’italica primavera del 2005, e nemmeno della semplice mondializzazione di un’istituzione troppo italianizzata per poter pretendere di guidare il pianeta all’incontro con Cristo, si tratta piuttosto del riaffermarsi di quel pluralismo insito nel cattolicesimo fin dal giorno dopo della Resurrezione quando Pietro, Paolo, Giacomo e Giovanni non erano solamente quattro nomi, ma l’epifania di quattro sensibilità molto diverse tra loro che, tutte insieme, esprimevano la novità dirompente introdotta da Dio nella storia.

Pretendere di uniformare il cattolicesimo ad un blocco monolitico significa resuscitare Ario, seppellire la Trinità e ridurre il Corpo Mistico a organizzazione militaresca. Nella Chiesa non ci sono solo io, le mie idee e la mia sensibilità: la Verità ha un genere, ha un numero, ha un caso, è – insomma – declinabile per mezzo della mia povera umanità. Tutte le volte che il cristianesimo ha provato a seguire la strada dell’omologazione ha sempre dovuto legarsi ad un potere terreno per reggere il contraccolpo degli eventi, finendo per assimilarne le sorti e i dinamismi. Papa Francesco questo lo sa bene: mai come in America Latina, infatti, la Chiesa ha rischiato più volte, fin dall’epoca della spartizione tra spagnoli e portoghesi, di strizzare l’occhio ad un potere definito e di seguirlo, quindi, nella sua parabola di gloria e di polvere.

Quattro Vangeli, una decina di riti, centinaia di diocesi (che i Padri chiamavano tranquillamente Chiese) stanno lì a testimoniarci che il cattolicesimo o è plurale o non è, che dopo il poeta polacco e il teologo tedesco, il pastore latino-americano non è un infedele o “uno che non ha capito bene”, ma soltanto un altro uomo che si avvicenda alla guida della Chiesa in un momento in cui è urgente, anzitutto, una riforma pastorale e spirituale della stessa Istituzione. Questa riforma è necessaria proprio perché la Chiesa è “movimento” non “moloch” sempre identico a se stesso. Senza una simile opera, oggi drammatica e urgente, domani non ci sarà nessun pastore teologo che potrà ancora rioffrire al mondo il tesoro bimillenario di una ragione esaltata dalla fede e baluardo di civiltà per tutto il genere umano. L’ospedale da campo di Francesco è una delle legioni della Schiera Angelica di Giovanni Paolo, ma è anche uno degli spazi dove la Cattedra Razionale di Benedetto ha bisogno di sostare per diventare ancora più solida e credibile.

Questa continua guerra fra cristiani, questo continuo vociare di profeti improvvisati, questa perenne pretesa di rilasciare patenti di cattolicità da parte di chiunque non solo è scandalo per molti, ma è una tentazione che il maligno offre a tutti coloro che desiderano possedere e non seguire la Verità. 

E quando faccio queste considerazioni non penso a Ferrara, che non ha mai voluto “spacciarsi per cristiano”, ma a quanti nella Chiesa avvelenano i pozzi della fede con chiacchiere sporcate di sapienza ma prive di misericordia. Recuperare la pluralità del cristianesimo è oggi urgente per tornare ad educare il nostro cuore alla Grande Presenza di Cristo, che non mette la Sua tenda dove decidiamo noi, fossilizzandosi in forme e volti sempre uguali a se stessi, ma che ci precede e ci sorprende, guidandoci al compimento stesso della nostra vita. Che non consiste nella vittoria sul nemico, islamico o moderno che sia, ma nella partecipazione del mio cuore al cuore di Cristo. E questa, cari amici, è la vera battaglia della nostra povera vita.

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