Povera Italia, diceva ogni tanto il mio papà, quando davanti al telegiornale assisteva al teatrino della politica. Se n’è andato nel 1992, un giorno di maggio, e ne ha viste di ogni genere: senza il padre a 12 anni, per poi assistere alla decisione di famiglia, verso il fratello mezzano, che dovette partire per la Merica. Poi la guerra, arruolato nei carabinieri che facevano la scorta al re, quindi l’avventura a Milano per un posto in banca, alla Comit… e il nostro vicino di casa che invece lavorava nella banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, dove ci fu la strage. Ha visto il ’68 e il ’77, coi suoi due figli, mio fratello più grande ed io (gemello di una sorellina che mi lasciò a un anno e un mese), che andavano a scuola negli anni caldi, e anche nelle scuole “calde” della Milano del terrorismo.



Ma Povera Italia non lo diceva mai nei momenti drammatici che ben conosceva, ma solo davanti a quella ritualità autoreferenziale della politica per cui provava vergogna. Aveva visto l’Italia risorgere e ne avvertiva l’involuzione. Gli è mancato di vedere tutto l’iter di Berlusconi (ma ne aveva viste fin troppe) e chissà che amarezza avrebbe provato davanti ai talk show sulla politica (e qualcuno ha creduto davvero che la politica fosse quella. Povera Italia!) o al teatrino di questa primavera, dove neppure un presidente della Repubblica, i nostri politici, sono stati capaci di eleggere. Ora i nodi vengono al pettine e anche a me viene da dire Povera Italia, mentre penso ai miei figli, al lavoro, al futuro che si spiana in tutta la sua fragilità. Come ha potuto incartarsi il Paese in questo modo ? Ma non solo la politica: tutto il sistema a quanto sembra, che tira la corda della democrazia finché non si spezza.



E quando si spezza – avrebbe osservato il mio professore di Scienza delle Politica, Gianfranco Miglio – si apre la strada al potere forte, alla dittatura, secondo una schema di ciclicità degli eventi che torna con volti sempre diversi, anche se la sostanza non cambia. Sarà tedesco, cinese, oppure un buffone il dittatore che ad un certo punto ci verrà da invocare per uscire dal pasticcio in cui ci siamo infilati? Ricorsi. Sono solo ricorsi, ci dirà l’analista di turno. Ma quanto costano questi ricorsi che crescono nel ventre molle di una democrazia fragile, alimentata dalle mortificazioni reciproche delle fazioni politiche o dei poteri di uno Stato? S’è perso il senso del bene comune: c’è qualcuno che ce l’ha ancora? Mi ha fatto tenerezza l’altro giorno, trovarmi a Legnano, in una pizzeria straordinaria: Montegrigna by Tric Trac (via Grigna, 12 tel. 0331546173). Si chiama così e il patron, Bruno De Rosa, originario di Tramonti (Sa) era dietro al forno a legna che lavorava, sotto lo sguardo di un padre Pio appeso al muro. A un certo punto ha alzato la maglietta sul braccio e mi ha fatto vedere una medicazione. Che fatica infornare tutte quelle pizze con l’età che avanza.



Eppure se cede i suoi saperi (unici, credetemi) ad un pizzaiolo di passaggio, dopo sei mesi quello se n’è già andato, con un lauto stipendio e un mestiere rubato. Povera Italia! Però il signor Bruno mi ha fatto tenerezza, perché è uno che ci mette la faccia, che non demanda ad altri, e negli occhi ha anche il peso della stanchezza sua e dei suoi collaboratori che la domenica a pranzo erano provati. Ho assaggiato la pizza fatto secondo l’impasto di Tramonti (con il finocchietto selvatico, rara avis) ed era fantastica. Io quella pizza, che rimane fragrante fino all’ultimo boccone, la mangerei anche fredda, tanto è buona e vera. Avrebbe voluto farmi assaggiare anche la pastiera, ma la sera prima era terminata. Mi ha offerto un liquore che faceva sua mamma, il Concerto, e mentre bevevo quell’elisir pensavo che questa no, non era la povera Italia. Noi siamo la grande Italia, ma abbiamo lasciato troppe cambiali in bianco in mano a chi – affarista, arrivista, ideologo o puttaniere – avrebbe dovuto tremare davanti al compito di difendere un bene comune. E ora ? Ora tocca a noi, in un modo o nell’altro. Spegniamo la televisione!

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