Torna spesso negli incubi peggiori, quando si pensa a una pena irredimibile, un dolore indicibile, a una sventura irrimediabile, il nome e il volto di Anna Maria Franzoni. Il suo taglio di capelli, la smorfia della bocca imbronciata, sul suo bel viso, gli occhi velati e lontani, vuoti, anche quando pieni di lacrime. Maschera inconsapevole e tragica, ma senza la ferina ed eterna forza di una Medea, resta un esempio della follia materna, e non solo, un modello dell’assurdità e della confusione del nostro sistema giudiziario e penale. Tocca ricordare la sua storia, anche se è letteratura, purtroppo non da romanzo noir o d’appendice, ma solo da riviste di gossip.
Anna Maria si è svegliata da poco, quella mattina fredda e brumosa di gennaio, nella sua casa di Cogne. Ridente paesino turistico ai piedi del Gran Paradiso. Sveglia i suoi due bambini, prepara la colazione e i vestiti per il più grandicello, che accompagna alla corriera per andare a scuola. Il piccolo, Samuele, dorme nel suo lettone, o ce l’ha messo lei, tranquillo, mentre sbrigava le faccende consuete. Tutte le mattine allo stesso modo, come tutte le mamme del mondo. Però quel giorno è successo qualcosa. In lei, come una molla, una paralisi della coscienza, un’accecamento della responsabilità, un istinto insano e selvaggio. Basta. Basta con quel bambino che piangeva, come tutti i bimbi del mondo, basta con una vita in solitudine, lontana dagli affetti, da amicizie quotidiane, basta, lei così bella ed amata, tra quelle montagne cupe e inospitali. Uno scatto, e poi, affidato il fratellino, tornata in camera, quel bambino sanguinante, palpitante, incapace di urlare, con la testa fracassata, nel suo letto, quel bambino che cerca di rianimare, di tamponare, mentre afferra il telefono, chiama un medico, un’amica, e poi. Morto il suo Sami, cancellato il ricordo di cos’è potuto accadere.
Che sia lei l’assassina, in molti ancora dubitano. Troppo perfetta, troppo dolente, troppo incredibile nei panni di una feroce matricida. L’abbiamo conosciuta giorno dopo giorno, questa donna fragile e cocciuta, “la bimba”, era per tutti i suoi di casa. L’abbiamo studiata per cogliere lampi ed esitazioni, sotto i riflettori e le telecamere, perché la storia e il delitto di Cogne è stato il primo e più sconvolgente caso di cronaca nera vivisezionato dai media. Non era giusto, non era necessario. Ma l’esposizione televisiva ha anche messo in luce le contraddizioni, gli errori nelle indagini, la lentezza dei processi, in mancanza di prove certe, inconfutabili.
Non poteva essere che lei, si detto. Si è psicanalizzato il personaggio, parlando di scissione della personalità, per non voler credere all’abisso della pazzia, anche se momentanea, all’agguato del male, il più atroce. Sono passati troppi anni, sette, prima di una sentenza definitiva, quando Anna Maria, di nuovo madre, aveva ripreso la sua vita casalinga, questa volta vicino ai suoi parenti più stretti, quella famiglia patriarcale così chiusa e omertosa, serrata a difesa del buon nome, o forse di una speranza ancora per quella figlia perduta.
In carcere dal 2008, dopo cinque anni di silenzio Anna Maria torna a varcare le sue mura, come emersa da un buco nero. Cinque anni in cui non abbiamo più sentito parlare di lei, dopo l’accanirsi giorno dopo giorno di inchieste giornalistiche e giudiziarie, dopo i pettegolezzi, le illazioni. Anna Maria lavora, ha ottenuto il permesso di uscire dalla Dozza bolognese per lavorare in una sartoria, in una cooperativa che cerca e trova impiego per i detenuti.
Troppo presto, diranno alcuni. Benefici dimentichi di quel piccolo angelo massacrato orribilmente. Eppure, se ha ottenuto questa attenuazione della pena, è perché Anna Maria è stata in questi anni una detenuta irreprensibile. Ben disposta con le compagne, coi superiori, capace anche da lontano di seguire i suoi figli, operosa già da reclusa e desiderosa di prestare opera a tempo pieno. Una brava sarta, attenta e veloce, orgogliosa dei suoi capi, delle sue borse. Pronta sempre a confessare la sua innocenza.
Che mistero l’uomo. Ma la pietà non è solo per i giusti. Se non ci muove l’ammonimento cristiano, basta tornare a quel saggio unico al mondo firmato Cesare Beccaria, un punto a favore del genio e dell’umanità italiane, del migliore spirito illuminista. Le pene devono essere riabilitative, non punitive, per tutti. Figurarsi una madre che, negli sprazzi di lucida coscienza, dovrà per sempre fare i conti con quel vuoto di senno e di amore, rivedere in ogni angolo il fantasma del suo bambino, ascoltarne in eterno il pianto. La legge giudica, e talvolta si capisce che non è soltanto un tritacarne, soggetta alla vergogna della burocrazia e dell’ideologia, ma è applicata da uomini e donne che osano rischiare l’impopolarità, per tentare di essere giusti.