La Fraternità di San Pio X, quella che volgarmente denominiamo “dei Lefebvriani”, è tornata a farsi sentire. Dopo il generoso tentativo di Papa Benedetto, che sotto il suo pontificato aveva cercato di dare una risposta teologica e pastorale all’effettivo scisma che la Fraternità aveva posto in essere alla fine degli anni ottanta – in seguito alla sfortunata iniziativa di Lefebvre che consacrò alcuni vescovi illecitamente e si oppose pubblicamente non solo allo spirito, ma alla stessa lettera del Concilio Vaticano II – il silenzio dei primi mesi del pontificato “francescano” aveva lasciato intendere che pochi spazi ci sarebbero stati per un dialogo autentico tra la Santa Sede e la Fraternità stessa.
In merito giravano già da mesi battute, illazioni e notizie di seconda mano, ma qualche giorno fa è arrivata la prima e significativa doccia fredda da parte di uno degli esponenti del fronte lefebvriano, Matthias Gaudron. Senza mezzi termini egli si scaglia contro il Papa, accusandolo di posizioni ambigue e contraddittorie sul tema dell’omosessualità e constatando che, di questo passo, la Chiesa cattolica in Germania è destinata a sparire nei prossimi vent’anni, in favore di una piccola comunità forte nella fede e ostracizzata dal potere ufficiale.
Il Papa, lo ripeto senza indugi, non ha bisogno di avvocati, ma la presa di posizione di Gaudron merita almeno qualche riflessione. Nel merito occorre dire che non si capisce bene in relazione a quale concetto di omosessualità papa Francesco sarebbe ambiguo. Quello espresso dal Catechismo del 1992 e da tutti i documenti della Chiesa, a partire dagli anni settanta, tiene insieme sia il biasimo e il giudizio “intrinsecamente cattivo” sulla tendenza omosessuale, che la posizione di accoglienza e di fiducia per chi vive una tale condizione non con l’ostentata affermazione di sé tipica dei bulletti delle medie, ma con un animo di sincera religiosità e di attaccamento al cuore di Cristo e della Chiesa.
Se la posizione presa a paragone è questa, ma dubito che un lefebvriano possa accettare un magistero post-conciliare così chiaro e autenticamente umano, allora non c’è scandalo in un Papa che non giudica un omosessuale che tenta di fare il proprio cammino dinnanzi a Dio. È dovere della Chiesa non rinunciare alla verità e non venir meno alla carità. Senza una tale schiettezza comunicativa il Vangelo rischia di diventare uno strumento di potere in mano ai teocon (o ai teodem a seconda delle convenienze) al servizio di una dialettica politica ed ideologica estranea all’annuncio di salvezza portato da Cristo.
Gaudron dovrebbe chiarire a quali testi e pronunciamenti magisteriali il Santo Padre starebbe voltando le spalle, cercando di andare oltre gli slogan di un conservatorismo sterile nuovamente a caccia di consensi in nome di un radicalismo politico e religioso lontano anni luce da quella “luce della fede” che i Papi propongono agli uomini come fiaccola per il loro discernimento umano e spirituale.
Questi estremismi, tuttavia, non vanno derubricati nel folklore. Gaudron si fa portavoce di un disagio crescente del blocco più genuinamente ratzingeriano del cattolicesimo occidentale e di quel mondo laico che a Benedetto guardava con simpatia e riconoscenza. Il problema di un tale sentimento non è solo riconducibile ad una mancanza di consapevolezza sulla realtà della Chiesa, che è plurale e non monolitica e settaria, ma anche alla mancanza di una teologia che sostenga con forza il pensiero del Pontefice. Senza una struttura teologica, che offra fondamento alle frasi del Santo Padre, i suoi richiami rischiano di apparire slogan modernisti o tentativo di restyling religioso.
Il punto è che non è affatto così. Francesco si inscrive in una tradizione patristica e teologica ben fornita di strumenti capaci di raggiungere non solo il cuore, ma la ragione di ogni uomo di buona volontà. La forza del Papa mette in evidenza la debolezza e l’autoreferenzialità della teologia. Giovanni Paolo e Benedetto furono teologi di loro stessi, diffusori di pensieri profondi e articolati, capaci di diventare orizzonte pedagogico e culturale per tutti. Francesco chiede alla teologia di crescere, di andare e di mostrare al mondo la pertinenza della fede e della Misericordia alle istanze della ragione. In questo senso le parole del Papa ci sfidano ad andare oltre il già saputo per riconoscere, nella sua voce e nelle sue provocazioni, il Risorto che ci chiede di crescere e di seguirlo.
Gaudron non ha un problema con Francesco, ha un problema con il Vivente, sepolto da lui sotto la polvere dei Concili e dei dogmi, incapace di guidare oggi la Sua Chiesa. Il papa gesuita mette a nudo la nostra incapacità di vivere il rapporto col reale, col presente, come rapporto con Cristo, mostrandoci come ognuno di noi tenda ad optare per la difesa del già saputo e dell’ideologicamente corretto. Senza presente non c’è teologia, ma non c’è neppure reale sequela. E questo dovrebbe preoccupare non tanto la Santa Sede, o i custodi della sana dottrina, quanto il lefebvriano che è nascosto in ognuno di noi e che rischia, dietro un’affettata obbedienza, di essere più lontano dal Papa di quanto egli stesso possa e voglia ammettere. Senza Chiesa, infatti, non c’è Cristo. Ma solo un Dio che assomiglia terribilmente ad ognuno di noi.