Il divario di forme, stili e contenuti tra papa Francesco ed il suo predecessore è talmente forte che finisce spesso per occupare il proscenio e mobilitare polemiche e tensioni. Quest’ultime infatti si vanno delineando con sempre maggiore violenza fino ad arrivare a denunciare, come fa Mattia Rossi nel Foglio dell’11 ottobre, la fondazione da parte di papa Francesco di una nuova religione e quindi di una “neo-Chiesa”. È veramente possibile?



Teologi e filosofi troveranno parole ed argomenti. Ma come sociologo delle religioni non posso non restare perplesso: non mi sembra che la Chiesa cattolica si presti a colpi di mano teologici, e credo che i processi di transizione vadano misurati cogliendo prima il peso dei tratti comuni tra un pontificato e l’altro più che le eventuali discontinuità. Quest’ultime si analizzano chiedendosi se infirmino o meno i dati comuni appena reperiti e solo quando lo fanno allora ci sono le premesse per un reale mutamento.



La Chiesa è una compagnia “semper reformanda” dichiarò il futuro Benedetto XVI al meeting di Rimini del 1990 e se ciò, ovviamente, non può sfociare nel relativismo e nell’etica delle circostanze, è proprio di questo che Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro accusano il presente pontificato. Ma si tratta veramente di difformità sostanziali? Oppure non c’è forse in corso un processo più consistente, alla luce del quale, collegando i tre pontificati tra di loro, è possibile notare una dinamica assolutamente diversa?

Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco costituiscono in realtà tre tappe di un processo di reazione alla secolarizzazione ed all’indifferenza nei confronti dell’evento cristiano dell’Incarnazione. Per quanto il processo di distacco dalla Chiesa si sia sviluppato lentamente all’interno del mondo moderno, questo è venuto alla luce in Italia, in modo plateale, nel corso degli anni sessanta, rivelando così l’esistenza di una maggioranza agnostica e serenamente indifferente.



Nel reagire alla secolarizzazione ed all’indifferenza il Papa polacco ha percorso in lungo e in largo l’intero pianeta alla luce costante dell’esortazione dell’“Alzatevi! Andiamo!”. I giovani che ne hanno fatto un’icona e lo hanno pianto – e non certo da soli – in una sera indimenticabile del 2 aprile 2005 costituivano l’indicatore evidente di un legame condiviso, la prova provata di una visibilità pontificia riconquistata. Dopo di lui, Benedetto XVI si è imposto come il papa della ragione visibile. Capace di dialogare con il pensiero contemporaneo, da Rawls ad Habermas, di rivolgersi agli accademici sul tema della ricerca della verità ed ai capi di governo sui temi del potere e della giustizia. Con Benedetto XVI che, dopo aver scritto un testo su Gesù di Nazareth, chiama un teologo valdese ed un filosofo non credente a commentarlo, non sarà più possibile pensare il cristianesimo senza scoprirne l’enorme pretesa veritativa, una pretesa tanto più rilevante quanto più si accompagna dall’uso metodico della ragione.

Dopo questi due Maestri e proprio grazie al tesoro di credibilità che hanno costruito era necessario qualcuno che affrontasse l’indifferenza della città secolare, recuperando tutto l’universo rimasto fuori dalle chiese, nelle strade della città laica e disincantata. Francesco così diviene effettivamente il pastore che, abolendo le distanze, esce e va alla ricerca di quanti si sono smarriti, inaugura processioni da San Giovanni in Laterano a Santa Croce, si inchina alla Madonna di Fatima ed è, permanentemente, sul sagrato di una piazza eternamente gremita. Dopo la vigoria profetica di Giovanni Paolo II e la luminosità teologica di Benedetto XVI è il turno della bontà accogliente di Papa Francesco. Ed il mondo, sorpreso da trent’anni da una Chiesa che avrebbe dovuto inabissarsi in un deserto di indifferenza, come avviene in non poche periferie avanzate dell’Europa contemporanea, si ritrova invece a fare i conti con una centralità ed una visibilità mai viste prima.

Ovviamente Francesco non può presentarsi senza che, in qualche modo, si profili all’orizzonte una domanda, una richiesta quasi provocatoria ad esserci, una sfida a misurarsi con quegli stessi interrogativi che la modernità è costretta a lasciare irrisolti. L’immagine dell’ospedale da lui recentemente sollevata, svela proprio quella modernità ferita e in ricerca, la cui presenza giustifica la sua missione pastorale. È infatti solo a questa condizione che è possibile e ragionevole scendere, anche fisicamente, dall’automobile per abbracciare, salutare, scrivere lettere, telefonare. Se McLuhan aveva preannunciato il “villaggio globale” non c’è nulla di più coerente di un Papa che percorre questo stesso villaggio con l’incedere affrettato del parroco che ha fretta di incontrare “i suoi”. La condizione è proprio che questo villaggio riconosca ed ammetta il vicolo cieco nel quale vive. “Anche noi non credenti – dichiarerà Scalfari intervistando Papa Bergoglio – sentiamo questa sofferenza quasi antropologica”.

E’ sulla riflessione intorno a quest’evidenza che avviene l’incontro tra due uomini, dove ciascuno ha dichiarato le proprie generalità e la propria identità. Se il primo afferma di credere nell’Essere inteso come “un tessuto di energia” ed il secondo in Dio, nella lettera del 4 settembre a Scalfari, Papa Francesco aveva scritto: “La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale …., ma che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto … Senza la Chiesa, mi creda, non avrei potuto incontrare Gesù”.

Papa Francesco sta qui presentando una dinamica di riconoscimento che è tutt’altro che un percorso puramente intellettuale, ma la conseguenza di un incontro che matura all’interno della Chiesa. Senza la presenza di quest’ultima, senza un incontro con la Chiesa viva, la strada di accesso alla Verità sarebbe molto più impervia. Ce n’è abbastanza per riaffermare tutta l’importanza e la consistenza della Chiesa vivente ed è questa la strada per recuperare ogni differenza vera o presunta.

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