«Dovremmo portarci nel cuore una cosa, un uomo non è il suo errore. Un detenuto non è solo il crimine che ha commesso». Sandro Gozi è neo vicepresidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa con delega alle carceri. È anche il relatore di una delle proposte di legge sull’amnistia e l’indulto che verranno discusse nei prossimi giorni dal Parlamento. Ma quello che dice non nasce solo dalla sua esperienza politica. Ma da un incontro, quello con don Oreste Benzi, un prete che conosceva piuttosto bene l’umano.
Siamo a Padova. Gozi sta parlando dal palco del Centro congressi Papa Luciani al convegno di presentazione dei “Quaderni su carcere e giustizia” il primo dei quali è dedicato all’emergenza lavoro in carcere. I relatori sono di prim’ordine, primo tra tutti il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri. Anche il ministro oggi ha fatto degli incontri che l’hanno colpita. Solo un’ora prima era in carcere. Ha incontrato gli agenti, visitato i capannoni con le lavorazioni di Officina Giotto e incontrato i 120 detenuti che ci lavorano. Valige, biciclette, call center, cucina, pasticceria… un’umanità attiva, operosa. Nell’auditorium del carcere ha ascoltato Gianni, che ringrazia chi gli ha consentito di lavorare. Poi Davor, croato. Che non deve più subire l’umiliazione di chiedere aiuto ai familiari per le piccole spese quotidiane. Poi ascolta Dinja, giunto dall’Albania con il gommone: pensava di trovare l’Eldorado e invece è scampato per poco alla morte. E Michele, piccolo imprenditore che si è rovinato per un momento di follia e ora dirige il call center. Tutta gente a cui il lavoro ha cambiato la vita di netto. Il lavoro e una compagnia di persone che condividevano con loro la giornata.
«Un esempio per tutti, Padova è un carcere da prendere a modello». Con il suo curriculum di prefetto, il guardasigilli è evidentemente persona di azione, ama andare subito al sodo. «Ci sono situazioni come Padova o Bollate in cui il miracolo avviene. E sempre la chiave di svolta è il lavoro. Che oggi coinvolge una quantità ridicola di detenuti. Occorre fare un salto di qualità, voltare pagina. Io oggi ho visto prodotti veramente buoni che non hanno nessun problema a stare nel mercato. Cerchiamo di portare in tutta Italia questo modello di comportamento, con prodotti che stanno sul mercato».
A dare il la al ministro non sono solo i detenuti di Officina Giotto, ma anche gli altri relatori. Il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino ricorda che «a Padova è cominciato tutto», con un gruppo sparuto di docenti che iniziarono a far lezione nel vecchio carcere di piazza Castello. «Molti detenuti si laurearono», ricorda Tamburino. «Un giorno uno di loro mi venne a dire “A noi rimane del tempo, vorremmo sfruttarlo per insegnare agli altri detenuti che non hanno neppure la licenza elementare”». Di qui, l’intuizione: il detenuto «non è solo destinatario di un intervento, può diventare una risorsa». Anche il procuratore Pietro Calogero, già pm degli anni di piombo, smantella con la sua immensa cultura giuridica l’idea che il lavoro in carcere sia un’aspirazione a cui corrisponde – quando capita – una benevola concessione. L’ordinamento penitenziario parla chiaro. «È un obbligo inderogabile dello stato a cui corrisponde il diritto soggettivo al lavoro del recluso. Rieducare è dovere fondamentale dello stato». E apre una riflessione sull’amnistia e l’indulto, proponendo un’interpretazione di grande spessore.
Ma chi fornisce l’assist più diretto è Carlo De Benedetti. Lui al Due Palazzi c’è stato già due volte. Li ha visti per bene quei capannoni industriali, ha parlato con i lavoratori. Interviene in video ponendo un punto fermo: si ripartirà solo con il lavoro. Come in America con la “brain economy”, l’economia dell’innovazione. Non teme paragoni impegnativi. «Qui ci vuole una rivoluzione, come ha fatto Bill Gates a Seattle o Jeff Bezos, il creatore di Amazon a New York. Non dobbiamo attenderci la ripresa dell’economia dallo Stato, dobbiamo prendere noi l’iniziativa. Boscoletto con la cooperativa non crea solo lavoro per i detenuti, ma li aiuta a modificare il loro rapporto con se stessi. Imparano la passione di lavorare. Perché noi torniamo uomini nel momento in cui lavoriamo. Altrimenti sopravviviamo, ci spegniamo e perdiamo la nostra natura di uomini. Parliamo tanto di sovraffollamento ma invece di creare nuove carceri di impianto tradizionale perché non creiamo strutture sicure sì ma che rimettano l’uomo a ridiventare se stesso attraverso il lavoro? Vale non solo per le carceri, che sono il punto più doloroso della nostra collettività, dovrebbe essere il leit motiv del paese».
Non può che condividere, Anna Maria Cancellieri. «Ha ragione De Benedetti, è il lavoro che dà dignità alle persone. Dobbiamo dare a tutti un’opportunità per potersi realizzare. A Padova abbiamo visto che quando si vuole si fa. Se qui è successo, dobbiamo farlo dappertutto. Se oggi su 100 detenuti solo 5 lavorano e 95 non fanno nulla, dobbiamo puntare a invertire queste cifre». Boscoletto, presidente di Officina Giotto, non si fa pregare. Ci sono strumenti anche finanziari di nuova generazione, come i social impact bond. Le cooperative sociali e le imprese profit sono in grado di gestire tutti i servizi accessori del carcere. «Siamo pronti a seguirla – interviene parlando a nome delle oltre venti coop sociali di tutta Italia presenti a Padova – perché lo stato possa risparmiare e perché ciò che spende lo spenda solo in proporzione ai risultati». Si chiama sussidiarietà, anche dietro le sbarre.
(Ione Boscolo)