E’ entrato in carcere per delitti di camorra quando aveva 13 anni e ne è uscito a 28. Quindi cinque anni fuori, nel corso dei quali è tornato a delinquere, e poi una nuova condanna a 30 anni. Salvatore (il nome è d’invenzione), 53 anni, ha scontato dieci anni di carcere duro, o 41-bis, e da un anno e mezzo è in semilibertà. “Nella mia vita mi sono macchiato di crimini orribili – racconta a ilsussidiario.net -. Dietro però a ogni storia, anche la più aberrante, comunque c’è sempre una persona”. Secondo un sondaggio sette italiani su dieci sono contrari al provvedimento di clemenza richiesto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Per Salvatore, “si tratta di una posizione comprensibile, ma che dimentica il fatto che il carcere non è la metà marcia della mela ma è figlio della società in cui viviamo”.



Salvatore, per quale motivo lei è stato condannato?

Mi sono trovato coinvolto in moltissimi reati di sangue in quanto associato alla camorra, e nel 1991 sono stato arrestato e condannato a 30 anni. Nel 1995 sono stato sottoposto al regime carcerario duro, o 41 bis, nel quale sono rimasto fino al 2005. Da un anno e mezzo mi trovo in semilibertà. Nel carcere ho iniziato un percorso di recupero, che mi ha portato a prendere coscienza di quel che avevo fatto. Ho riflettuto a lungo, finché nel 1994 mi sono dissociato dalla camorra e ho confessato tutti i reati che avevo commesso.



Che cosa l’ha portata a decidere di iniziare un percorso di recupero?

Innanzitutto la mia famiglia d’origine, un contesto molto sano a differenza di quello in cui avevo vissuto buona parte della mia giovinezza. L’affetto dei miei genitori e dei miei fratelli mi ha aiutato a capire che non valeva la pena continuare a fare quella vita criminale. A ciò si è aggiunta una stanchezza per il modo in cui stavo vivendo, e per la prospettiva di non uscire più dal carcere.

Che esperienza è quella del carcere?

Il carcere è una realtà che non offre nulla, se non una stanza di pochi metri quadri, e da questo punto di vista l’unica cosa a non mancare è il tempo per riflettere. Un carcerato conduce una vita totalmente di “ozio”, e se non trova delle motivazioni personali per andare avanti ogni giorno è più difficile.



Che cosa prevede per lei il regime di semilibertà?

Esco dal carcere ogni mattina alle 6 e rientro alle 22.30. Insieme alla mia compagna ho aperto un piccolo negozio di prodotti tipici campani a Milano ed è un’esperienza bellissima anche se faticosa. Con l’aiuto dei miei cari e di alcune persone speciali che ho avuto modo di incrociare durante la carcerazione, sono riuscito ad avviare questa attività.

 

Le è capitato spesso di sentirsi giudicato per il suo passato da parte di chi incontra?

Certo che mi è capitato. In questi casi cerco di fare capire a queste persone che la realtà del penitenziario non è poi molto distante da quella di chi vive fuori. Il carcere è figlio della società, non è qualcosa di separato. Il messaggio che cerco di comunicare in queste circostanze è che anche se uno ha commesso degli atti molto gravi, rimane pur sempre un essere umano.

 

Che cosa ne pensa del fatto che sette italiani su dieci sono contrari a un provvedimento di clemenza?

Chi esprime questi giudizi spesso lo fa perché non conosce la realtà del carcere. Agli stessi mass media conviene fare passare l’idea che esistono dei bruti privi di umanità che si sono macchiati di crimini e che quindi devono rimanere chiusi dentro a una cella. Per una persona che vive una vita normale, sapere che possono uscire dei cattivi non fa chiaramente piacere. E’ da qui che nasce quello che ritengo però come un giudizio abbastanza superficiale. Ciò non vuol dire che nelle carceri non ci siano delle persone che hanno commesso dei reati e hanno creato un danno alla società. Dietro però a ogni storia, anche la più aberrante, comunque c’è sempre una persona.

 

(Pietro Vernizzi)

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