Colpisce un ragazzo con un coltello da cucina, sette volte alla schiena, quattro al torace. Una mattanza. Solo che non si tratta di un regolamento di conti tra le fila della mala salvadoregna, né di un atto di guerra etnica in un paese dell’Arica nera. Siamo a Città di Castello, provincia d Perugia. L’attentatore è una donna, la vittima suo figlio. Di più, suo figlio undicenne, un minore dunque. Ancora peggio, è un ragazzo autistico. E’ vero, anche la madre soffre di disturbi psichici, depressione, dicono, era in cura sotto sedativi.
Era curata male. Probabilmente anche la diagnosi era sbagliata, e tocca chiedersi com’è possibile che i casi della cosiddetta depressione siano tanto in aumento, e sfocino sempre più in violenza contro se stessi e gli altri. Perché una donna è depressa? Perchè è infelice. Tutti lo siamo, e ciascuno a modo suo, direbbe Tolstoj, ricalcando l’incipit di Anna Karenina. Ma al paragone con altri, nessuno può esserlo del tutto: basta voltarsi per vedere un dolore impensabile da sopportare e vivere, e le immagini dei parenti chini sulle bare di Lampedusa, un giro in una corsia di malati terminali dovrebbero aprire gli occhi. Perché tuttavia, si scoprono i segni della speranza, financo dei sorrisi.
La depressione è un male troppo diffuso e facile da dichiarare per essere la risposta al disagio, alla solitudine, alla mancanza di significato, alla debolezza che s’accascia davanti a qualsivoglia fatica e sacrificio (accidia: ma non era un peccato?). Oppure sotto il nome di depressione identifichiamo troppo genericamente turbe psichiche ben più gravi, e benedetti siano i farmaci, e bisogna esercitare controlli medici più attenti, più solerti, più determinati.
Ci si chiede che ruolo avesse il padre, in quella comune famigliola umbra. Se si sia mai accorto di cosa si agitava nell’anima di quella moglie scontrosa e lamentosa, come tante donne troppo cariche di pesi e di noia (tornano a mente le nonne, che manco avevano la lavatrice e la macchina, ma sembra di elogiare le miserie del tempo andato…). O la sua vita era altrove, da quella situazione scomoda, in cui si trovava impotente? O ha chiesto aiuto e non l’ha trovato, non l’ha potuto trovare, perché poi tocca guadagnarsi il pane, e non si hanno tempo e soldi per cercare specialisti e star dietro a amici col cuore troppo stretto. Avrà pensato alla storia dell’uovo e della gallina?
Ovvero, quel figlio silente era così per la madre, o è la malattia del figlio che ha scatenato la follia della madre? Ci ha mai pensato un assistente sociale, un docente di sostegno, che senz’altro il ragazzino avrà avuto, a sospettare tensioni, lacerazioni e possibili tragedie?
Bisognava farlo, bisogna. Grazie a Dio quel figlio sfortunato è salvo, si spera in un affido sereno, che gli offra il sostegno, la tenerezza, la pace. E che quella donna, cosciente di sé, non sconti la sua follia col carcere, ma possa essere accompagnata, seguita, medicalmente e umanamente, da qualche persona di buona volontà.
Risparmiamoci, sulle cronache di domani, la solita tiritera sulla provincia chiusa e oppressiva che copre orrori o peggio, la solfa della famiglia come sentina di vizi e omertà. Città di Castello è una ridente cittadina, gloriosa di storia, paesaggi, gastronomia, cultura. E’ piena di famiglie contente, di giovani coppie che vogliono far famiglia. Che siano aiutate ad accogliere i figli che saranno loro donati, qualsiasi sia la loro condizione fisica o mentale.