“Le imprese italiane assumono pochi laureati con alta qualificazione perché il loro investimento tecnologico è basso. La stragrande maggioranza delle nostre aziende ha preferito rifugiarsi in nicchie nelle quali siamo tradizionalmente forti, ma che non sono in grado di trainare l’intera economia”. Daniele Checchi, professore di Economia politica all’Università degli Studi di Milano, analizza così le cause di quello che il governatore della Banca d’Italia ha definito senza mezzi termini un “analfabetismo funzionale” che si traduce nell’incapacità italiana di crescere e competere. In Italia la probabilità di un laureato di essere assunto è pari al 73%, esattamente come quella di un diplomato, mentre in Europa chi ha la laurea ha una possibilità dell’86% contro il 77% dei diplomati.



Perché in Italia un laureato ha vita più difficile rispetto al resto d’Europa?

Perché il livello di tecnologia delle imprese italiane è basso. Il punto di forza del nostro sistema produttivo è la manifattura artistica, non il versante della capacità tecnologica. Per cambiare la tipologia del settore produttivo e di competenze occorrono decenni. Per compiere un salto tecnologico non basta infatti aumentare la percentuale di laureati per dieci anni. Occorre che questi laureati abbiano delle competenze che possano favorire l’innovazione tecnologica dell’impresa stessa. Se sono laureati in lettere è più difficile che siano in grado di imprimere questo tipo di svolta. Se al contrario sono laureati in ingegneria diventa più facile. Da questo punto di vista esiste un problema di competenze degli stessi laureati.



Il fatto che il nostro sistema produttivo privilegi la manifattura artistica è un punto di debolezza o di forza?

E’ un punto di forza rispetto alla capacità di collocazione internazionale dell’Italia. Buona parte del commercio estero dell’Italia avviene su questa tipologia di prodotti. Tuttavia ciò non si colloca sulla frontiera dell’innovazione produttiva, e quindi dal punto di vista della competizione con gli altri Paesi finisce per frenarci. Per quali motivi? Perché la capacità tecnologica di un Paese si misura con la capacità di introdurre nuove produzioni e migliorare quelle esistenti. L’Italia è un Paese nel quale la bilancia dei pagamenti per la componente tecnologica è passiva ed è andata deteriorandosi negli ultimi 20 anni.



Come si spiega questa bilancia passiva?

Con il fatto che le nostre imprese non investono in ricerca. La storia industriale dell’Italia è quella di un Paese che ha progressivamente smantellato la sua manifattura per rifugiarsi in settori di nicchia nei quali il made in Italy è competitivo, ma che non trascinano il resto dell’economia. Gli italiani sono un popolo senza coraggio? Assolutamente no, ma il fatto è che il nostro capitalismo è molto familiare e quindi i destini delle imprese sono spesso collegati ai destini delle famiglie. Ciò non favorisce né la continuità nel tempo né l’innovatività.

 

Ci sono anche ragioni storiche di questa situazione?

Sì. La zavorra che frena l’Italia è anche il fatto che siamo un Paese di scolarizzazione tardiva rispetto agli altri Stati europei. Tanto è vero che dalla recente indagine sulle competenze degli adulti emerge che l’Italia è ultima insieme alla Spagna, che è un Paese molto simile al nostro dal punto di vista della scolarità conseguita. All’uscita dalla seconda Guerra mondiale il 70% degli italiani non sapeva né leggere né scrivere.

 

Ma sono passati 70 anni …

Eppure analizzando i dati di Alma Laurea emerge come ancora oggi circa il 60% dei laureati sono la prima persona a finire l’università nella loro famiglia. Ci sono quindi persone che sono entrate nelle aule universitarie senza alcuna tradizione familiare alle spalle, e quindi senza nessun supporto, nessuna capacità di trarre il beneficio migliore da questa stessa esperienza. Sono cioè dei laureati più deboli di quelli che hanno background familiari più robusti.

 

(Pietro Vernizzi)