E ora? Ora che Alberto Musy è morto, si chiude un capitolo, o si lascia il libro aperto, con le pagine strappate, senza che nessuno prenda la penna in mano e possa colmare le lacune, correggere gli errori, continuare la storia?

Alberto Musy, consigliere comunale dell’Udc, è stato colpito a marzo 2012 con sette colpi di arma da fuoco, sotto casa sua. Si era candidato a sindaco per la città di Torino, una corsa persa in partenza, ma svolta con coerenza per sostenere gli ideali e un’identità, moderata, di centro, parola brutta e scomoda e perdente. Era una brava persona, forse di più, un uomo giusto e mite, un professionista affermato, anche fuori della politica, stimato nella carriera universitaria, esemplare come padre di famiglia. Quattro figli, la più piccola ora ha tre anni, e non l’ha mai vista parlare, muovere i primi passi a gattoni.

Alberto Musy è morto ieri notte, dopo un anno e mezzo di coma profondo, dopo l’agguato. I colpi, la botta alla testa, nella caduta fatale. E il silenzio. Il silenzio rigoroso e discreto della famiglia, premurosa e fedele ogni giorno a visitare quella stanza d’ospedale, sperando in un cenno, un lieve segnale di risveglio. Una famiglia che ha parlato una volta sola, per bocca della moglie, che ha scritto una lettera al Consiglio Comunale della città di Torino, al sindaco: chiedendo di aiutare suo marito a dimettersi dalla sua carica di consigliere. Lui non poteva farlo, ma avrebbe voluto, per senso dello Stato e per la sua dignità, non occupare un posto, non percepire uno stipendio per un ruolo che non era più in grado di svolgere. Perché per lui la politica era un servizio, ed ora non poteva più servire.

Questo è il lato luminoso di una storia oscura che bisognerebbe raccontare nelle scuole, nella aule universitarie, specie quelle degli azzeccagarbugli. Così si lascia una traccia indelebile di onore e umanità. E ora? Ora  Alberto Musy riposa, per l’eternità, e nessuno provi a dire alla moglie, ai figli, meno male, meglio così. Meglio vederlo un padre, toccargli le mani calde, entrare coi pacchi della spesa e gli zaini della scuola nella sua camera, e sapere che è vivo, comunque.

E ora? E’ la frase smozzicata e terrorizzata che ha espresso, saputa la notizia della morte, il presunto assassino, Francesco Furchì. Faccendiere, brutte frequentazioni, una somiglianza rara con l’omicida, che quella sera si faceva riprendere da una telecamera di sorveglianza sotto casa della vittima, con un pastrano grigio e un casco in testa. Figura tozza, scomposta, le cui misure, la cui andatura, sono state scannerizzate con minuzia dagli esperti de Politecnico di Torino, il migliore d’Italia, e il verdetto è stato certo, al 90 per cento. E’ lui. Perché?

Perché riteneva di aver diritto a favori per aver aiutato Musy in campagna elettorale, di aver diritto a soldi e incarichi politici. Furchì ha sempre negato, ma è l’unico indiziato e proprio stamane doveva riprendere il processo, che ora cambia aspetto. E ora? Ecco il senso di quell’interrogativo angosciato. Perché la legge dice che se sei colpevole di tentato omicidio, ti fai parecchi anni di galera. Se di omicidio volontario, c’è l’ergastolo. Se mai Furchì fosse innocente, si comprende il terrore. Se è lui ad aver sparato e ucciso, la pervicacia con cui ha sempre negato non è servita: come una mannaia, un quadro giudiziario ben diverso e temibile arriva forse a rendere ancor più meschino e infame il suo rifiuto a collaborare, la mancanza di un pentimento anche minimo.

Ma c’è una cosa che non torna, in questa storia, all’ennesimo “e ora?” che tocca porsi. La legge riconosceva vivo Alberto Musy, benché immobile, benché in stato vegetativo persistente, come si suol dire. Tanto da essere più clemente con l’attentatore. Tanto da commutare quasi certamente la condanna ora che è sopraggiunta la morte. Perché la stessa legge ci ha spiegato che Eluana non doveva più essere assistita, perché era come morta? Perché si vuol permettere la morte per eutanasia, di quelle come lei, come loro, se si riconosce che l’esistenza è un valore? Se la morte è di Stato, allora si chiama pietà, e non è perseguibile?