Che cosa triste leggere il titolo dell’intervista di Daniele Checchi a ilsussidiario.net: “così i laureati in lettere affossano l’Italia”… Sembrerebbe il controcanto al titolo di un mio articolo comparso un mese e mezzo fa sul Mattino: “Perché se muore il liceo classico muore il paese”. Invece non è un controcanto, perché dire che la fine degli studi umanistici è un colpo mortale al paese non significa affatto dire che in essi risiede l’unica salvezza. La via giusta è far avanzare la qualità di tutto il fronte dell’istruzione. Al contrario, Checchi sostiene che i laureati in lettere sono un ostacolo al salto tecnologico di cui l’Italia ha bisogno: per questo servirebbero solo laureati in ingegneria (soprattutto quelli, neppure tanto laureati in fisica, in matematica o in chimica).



Se c’è una via sicura per ammazzare il paese sarà proprio quella di puntare su queste contrapposizioni: è un gioco molto pericoloso. E quel che è peggio, è un gioco asimmetrico. Difatti, non si sentono voci che dicono: la salvezza del paese verrà dagli studi umanistici, dal liceo classico e dai laureati in lettere. L’unica voce che si sente è di chi proclama che “servono” soltanto laureati in materie scientifiche e tecniche, o addirittura che è meglio che deperiscano i licei – tutti i licei, non soltanto il classico – e che occorre puntare solo sulle scuole tecniche e professionali.



Si potrebbe rispondere con una considerazione generale. La crisi di questo paese è una crisi ideale, di orientamento, uno sbandamento che travolge i giovani che non riescono più a capire il senso del loro ruolo sociale, a vedere nel proprio futuro. Non si vede come a una crisi del genere possa porre rimedio un’istruzione funzionalista, che mira a indirizzare a fare questo e quel compito determinato. Un’educazione vera e autenticamente efficace ha la funzione primaria di aiutare a comprendere sé stessi, a identificare il senso di quel che si vuole fare nella vita, a capire le proprie più riposte aspirazioni e a vederle realizzate. Il progresso della società – incluso quello tecnologico – può derivare soltanto da una conseguenza di questo realizzarsi, del pieno dispiegamento delle personalità, unica via affinché la società creda nel proprio futuro.



Ma siamo consapevoli di vivere in un periodo troppo pragmatista e “concreto” perché questi discorsi – che riteniamo essere gli unici davvero concreti – non suscitino un’alzata di spalle ironica.

Vogliamo almeno sperare che si sia d’accordo che un paese come l’Italia, che possiede un enorme patrimonio di beni culturali (archeologici, artistici, librari), è morto se non coltiva generazioni di giovani capaci di preservare e valorizzare questi beni. E vogliamo sperare che, se non si capisce che questo è importante anche perché la società conservi la memoria della propria storia, e quindi il senso della propria identità, che almeno si sia d’accordo sul fatto che quel patrimonio ha un enorme valore dal punto di vista economico.

Ma sappiamo bene che questo discorso non basta. E la tecnologia? – si dice. Ebbene, siamo perfettamente convinti che non esiste la possibilità di uno sviluppo tecnologico senza uno sviluppo vitale della scienza di base e che quest’ultimo abbia assoluto bisogno di un contesto culturale avanzato, sostenuto da una cultura umanistica solida e diffusa. Beninteso, parliamo di innovazione tecnologica autentica – quella che può far restare nel novero dei paesi avanzati – e non di innovazione tecnologica di retroguardia, di bricolage delle realizzazioni altrui.

Oggi l’Italia è tagliata fuori da tutto, dopo essersi bruciata l’una dopo l’altra le opportunità di autentico primato. È in Italia che uno scienziato umanista, Giulio Natta, ha creato la più grande invenzione chimica del secolo, la plastica; ma oggi l’industria chimica italiana non esiste più. Potevamo essere all’avanguardia nella tecnologia dei calcolatori e nell’informatica, con le idee di un imprenditore umanista come Adriano Olivetti, e abbiamo bruciato i ponti su questa via da decenni. Non ci è rimasto quasi nulla. Non sappiamo neppure più fare delle belle automobili. E, per il futuro, sembra che nessuno abbia più un’idea di come assumere un ruolo nella scienza e nella tecnologia avanzate. Forse dovremmo leggere attentamente l’autobiografia di Steve Jobs per capire quanto l’arte classica e la cultura umanistica l’abbiano ispirato nel creare quegli straordinari prodotti che hanno cambiato il volto del mondo. Possiamo venirne fuori puntando tutto sugli istituti tecnico-professionali?

Ma – si dirà – qui si sta parlando di laureati in ingegneria. Già, ma si tratta di capire di quale formazione ingegneristica si stia parlando, visto che l’andazzo è quello di disseccare al massimo nei Politecnici (e non solo) la componente di studi umanistici, persino impoverendo la qualità delle lezioni che si pretende che vengano tenute nel tipico inglese da quattrocento parole. Così si creano polli di batteria, persone addestrate a fare una sola cosa e che perderanno facilmente la testa di fronte a un’evoluzione tumultuosa che rende tutto rapidamente obsoleto, incapaci persino di scrivere un rapporto in una lingua ricca e raffinata, che vada oltre le suddette quattrocento parole inglesi da comunicazione turistica, persone prive di quell’autonomia che soltanto una cultura ampia può dare.

L’aspetto tragicomico della faccenda è che l’Italia ha creato una delle tradizioni più elevate e feconde nell’ambito di una cultura ingegneristica ampia e aperta alle scienze umane. Ma sembra che di questa tradizione si sia persa la memoria.

Con un gruppo di studiosi di vari paesi europei stiamo per pubblicare la raccolta delle lettere ricevute da un grande matematico italiano, Luigi Cremona. Non si tratta soltanto di un documento che illustra in modo straordinario l’esistenza nell’Ottocento di una rete scientifica-tecnologica europea, ben prima che nascesse la retorica europeista: una rete che comprendeva non solo scienziati, ma ingegneri, militari, insegnanti, uomini di lettere interessati alla scienza, come Lewis Carroll. 

Cremona era uno scienziato puro, un matematico che coltivava con passione la geometria “sintetica”, quella che addirittura si rifiuta di far uso dei numeri; ma era anche così sensibile alla tematica applicativa da farsi protagonista della fondazione della Scuola degli Ingegneri di Roma e, in generale, dello sviluppo degli studi di ingegneria in Italia assieme ad altri suoi colleghi e amici, come Francesco Brioschi, fondatore del Politecnico di Milano e (guarda un po’) presidente dell’Accademia Scientifico-Letteraria. L’ingegnere bretone Jules de la Gournerie scriveva a Cremona: «Lei ha riunito, nei giusti limiti, ciò che in Francia si tende a separare, gli alti studi e le applicazioni delle scienze». Era un giudizio forse fin troppo generoso, ma che rifletteva l’immagine del successo italiano, dovuto a personalità come Cremona (che fu ministro dell’istruzione): aver fatto avanzare il fronte dell’istruzione in modo armonioso, tutto il fronte e non uno soltanto. Per questo fu possibile che un grande scienziato umanista come Vito Volterra venisse da un istituto tecnico e che la cultura classica fosse il terreno di formazione di scienziati e imprenditori, fino a tempi molto recenti. 

Nel 1860, il matematico Gaspare Mainardi scriveva al ministro dell’istruzione Mamiani: «Ho detto ai miei dilettissimi scolari che Garibaldi domanda un milione di militi per rendere l’Italia libera e che S. E. il conte Mamiani vorrà milioni di filosofi per conservarla». A Garibaldi bastarono mille combattenti, ma oggi pare che di filosofi per conservarla non se ne voglia più neanche uno. Invece siamo fermamente convinti che un’armoniosa collaborazione tra ingegneri, scienziati, tecnici, filosofi e letterati sia la via giusta per salvare il paese.