La vicenda di Angela Bianco, la giovane di 26 anni che ha deciso di portare avanti la gravidanza nonostante sia affetta da una grave forma di tumore al cervello, mi ha riportato alla mente la storia della nostra cara Erminia. Era il 2006. Erminia era incinta di quattro mesi ed era ammalata di un tumore che doveva essere aggredito con la chemioterapia ma… la incontro.
E’ una donna non italiana, dolcissima, che aspetta solo di poter sorridere. Ha già due figli affidati alla madre che è rimasta con loro nel suo paese d’origine e, Erminia, a questi figli e a questa madre, con il suo lavoro ha sempre procurato il necessario per vivere. Ora c’è il problema di questo male che sta in agguato dentro di lei, come dentro di lei vive questo bambino. Il padre del bimbo praticamente non esiste, visto che ha già una moglie che non vuole lasciare. Erminia è completamente sola con il suo dolore, la sua preoccupazione per ciò che succederà, il suo continuo ricordo dei figli lontani, e la decisione da prendere circa la sua gravidanza. Ai medici che ce l’hanno segnalata vuole molto bene e si sente riconoscente per l’attenzione che le stanno prestando.
Non vorrebbe sopprimere il bambino, “lui non ha nessuna colpa” dice, ma d’altra parte i suoi figli aspettano l’aiuto che proviene dal suo lavoro. Lei deve stare bene per poter continuare a lavorare, ma se non si sottopone alla terapia…
Appare come una donna fragile, in realtà ha una grande forza interiore. Cerco anche una comunicazione con la famiglia presso la quale lavora. La signora con cui parlo è molto disponibile, ma il problema di Erminia è più grande di tutti noi. Siamo completamente attoniti e disorientati dalla complessità della situazione.
Da qualunque parte si prenda il problema, non si trova soluzione. La incontro più volte. Lei ripete spesso “sono sola” e ciò mi fa davvero male. Mi sento impotente e qualunque progetto mi sembra un palliativo. Le ripeto che non potendo più abitare presso la famiglia per cui lavora, metteremo in atto un’accoglienza; che le assegneremo un aiuto economico perché lei possa continuare a inviare denaro a casa per il mantenimento dei figli, che se il bimbo nascerà, ogni cosa che serve in questi casi la potrà avere da noi. Mi sembra di dire delle cose senza senso. Nessuno è in grado di colmare la sua solitudine e di cancellare i suoi sensi di colpa. Offro dei colloqui di sostegno psicologico, parlo nuovamente con i medici, mi informo ancora una volta sul suo reale stato di salute, per poi accorgermi che tutte queste cose non servono praticamente a nulla.
Erminia, il suo male, i suoi figli, il suo bambino, la sua solitudine, continuamente mi rigiro come in un bozzolo in questi fili annodati. E io chi sono? Le voglio bene per come è lei, senza pretendere che lei prenda la decisione che metterebbe a posto anche la mia sofferenza? E poi qual è la decisione che vorrei per il suo futuro? Tante volte abbiamo detto che la bacchetta magica non l’abbiamo, ma adesso…
Poi una telefonata a casa e Erminia mi dice: “io non tolgo il bambino, lui è piccolo, mi curerò dopo”. E’ sollievo il mio? Forse sì, ma resta una grande preoccupazione. Non vedo più spesso Erminia, l’ho affidata a un’altra operatrice, psicologa, che vive le situazioni con grande calore ed empatia. A tratti mi giungono aggiornamenti su come stanno andando le cose: la gravidanza va avanti bene ma il suo tumore prende più spazio dentro di lei.
Ai primi di gennaio, Erminia mi telefona, apparentemente serena e sorridente, per farmi gli auguri di buon anno e un’altra volta mi chiedo che ne sarà di lei. Poi arriva febbraio. Paola, la psicologa che la segue, mi annuncia che Erminia, sempre più consapevole di ciò che le sta accadendo, ha preso in considerazione la possibilità di donare il suo bimbo, con la forma dell’adozione, naturalmente, a un’altra famiglia.
Sono un’altra volta sottosopra. Che cosa è accaduto di nuovo? La buona comunicazione con i medici ci soccorre ancora. Il parto deve essere anticipato per permetterle di affrontare subito la terapia in dose massiccia. Partorisce invece spontaneamente ed è un bel bambino a cui lei, nel suo cuore, ha dato il nome del medico che se ne sta prendendo cura, Roberto. La sento dieci minuti dopo il parto e mi dice: “non me lo hanno nemmeno fatto vedere!” Certo è la procedura per le donne che scelgono l’adozione per il loro bambino, ma la malinconia nella voce è qualcosa di molto tangibile. Tutto sembra di nuovo in discussione: è convinta di ciò che sta per fare? “Ho dieci giorni per decidere” dice e forse le sembra un tempo lunghissimo.
Ci ritroviamo con l’équipe dei medici, con Erminia e la nostra psicologa Paola. Lei è zitta, si capisce che è molto concentrata. Alle mie parole: “Erminia, vorremmo anche sentire la tua voce”, scoppia in un pianto liberatorio. “Se non fossi stata da sola, se mia sorella mi avesse perdonato, se il padre del mio bambino mi aiutasse, se… Ma io sono una cattiva madre se lascio il mio bambino? Il sacerdote mi ha detto che sono buona ma io non…”.
Tutti noi presenti ci affrettiamo a rassicurarla e mentre gli altri parlano, sento pulsare il suo dolore e capisco l’inutilità delle parole anche se pronunciate con calore e partecipazione. Alla fine si asciuga gli occhi: “è meglio che cresca con una famiglia che lo possa mandare a scuola…”.
Sembra rinfrancata anche se ciascuno dei presenti avverte il senso di ineluttabilità delle sue parole. Ne parliamo all’interno della nostra équipe settimanale e, considerando la sua paura di non essere una buona madre, pensiamo che il suo bambino, diventato grande, nel periodo in cui si affacciano tutti i problemi esistenziali, sarebbe giusto che sapesse la motivazione del gesto della propria mamma. Così, prese tutte le informazioni presso il Tribunale per i minorenni, abbiamo convocato Erminia, che ha già iniziato la terapia, e l’abbiamo messa nella condizione per scrivere una lettera al suo Roberto.
Roberto saprà di avere avuto una madre amorosa, una madre che ha messo in gioco la propria vita perché lui potesse nascere. Il piccolo è stato adottato nel giro di dieci giorni. E la sua nuova famiglia ha nelle mani la lettera scritta da sua madre che gli leggeranno, non al compimento del 18esimo anno, ma non appena sarà in grado di comprendere.
Oggi Erminia non è più con noi. L’ho salutata qualche mese dopo perché voleva tornare nella sua terra: sentiva che il suo tempo su questa terra stava scadendo. È venuta a trovarmi e mi ha portato una collana e mi ha detto: “tienila”. Le ho detto: “arrivederci”, ma sapevo che non l’avrei più rivista. Dopo 15 giorni è morta. Serena, direi, perché è stata davvero una buona madre per tutti i suoi figli.
Paola Bonzi è direttore del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli onlus