A volte le notizie di cronaca, anche quelle meno eclatanti, suggeriscono inediti accostamenti, corrispondenze che fanno pensare. Dallo sciocchezzaio quotidiano leggiamo dei due “schiaffeggiatori” solitari milanesi che l’altra notte, zona Navigli, si sono divertiti a prendere a schiaffoni appunto i passanti ignari. Due coppie, in particolare, abbordate con nonchalance e malmenate, per poi vedere i due impuniti salire sula loro macchina e filarsela via. Follia? Difficile che capiti in coppia. 



Più probabile due buontemponi della Milano bene (la macchina è una Lancia Y da fighetti), in vena di goliardia, ad imitazione dei magnificati vitelloni di Amici miei. C’è un modo di divertirsi che è soltanto di-vertere. Uscir fuori di testa, voltare le spalle alla realtà, da soli, o in piccina compagnia, e pensare di sbeffeggiare il mondo credendosi migliori, soltanto per la propria dissacrante bizzarria. La trasgressione fine a se stessa, la scommessa su di sé, per il gusto di una risata a due, davanti a uno shortino, rivedendo il filmato della bravata (immortalato sull’i-phone, magari).



Seconda notizia, che ha commosso molti: è morto Zuzzurro, cioè il signor Andrea Brambilla, di professione comico, uomo di televisione e teatro. Lo ricorda fuori dalla chiesa, dopo le esequie, l’amico, cognato e socio Gaspare. Li rammentate in coppia? Ci hanno fatto ridere, di cuore, per la loro stralunata e surreale alienità e insieme perché ci sembravano compagni di strada, possibili da incontrare, e le loro osservazioni strampalate avevano una loro estraniante ma pur solida saggezza di stampo popolare. Su come va il mondo, sulle fortune e sfortune, sulla fatica a tirare avanti, con una smorfia da Pierrot. Due artigiani, che non si credevano dei divi, e sapevano quel che conta di più nella vita. Lo spiega Gaspare, commosso, ricordando che Andrea era anzitutto un papà, che aveva come unico pensiero e desiderio il figlio, che andava a trovare macinando chilometri, la notte, dalle tournée più lontane. 



C’è un modo di divertire che non dissolve l’umanità,  e lo si mette alla prova se tiene al tempo e alle prove più dure. Davanti a una malattia incurabile, la volontà di calcare ancora le scene, per un debito verso il pubblico, per un compito, alleviarne le preoccupazioni; davanti alla morte, la coscienza che “dovrebbe essere una cosa normale, per cui essere preparati”, e invece piangere, perché non si può recitare sempre, e non tutte le lacrime sono un male.

Oggi prevale la risata grossolana, cattiva, che fa del male: si tratti di schiaffi agli sconosciuti, o di staffilate mortifere al carattere, alla vita privata, agli affetti e alle debolezze delle persone. La chiamano satira, i suoi sacerdoti sono i maîtres à penser più pagati e rispettati. Si beano di antecedenti illustri nella letteratura e nella storia: quasi sempre uomini che pagavano di persona, rischiando, non godendo dei privilegi dei principi. Oppure dilaga la comicità becera, che strappa la risata, ma lascia al fondo un sapor di vergogna, non rende affatto  più leggera la vita.

Ridere è un dono, far ridere un esercizio di libertà e intelligenza. Non un repertorio di superficialità e fatuità, di vanità e perfidia, perché al fondo di ogni sorriso o risata c’è la coscienza, serissima, della propria debolezza, delle proprie mancanze, così simili a quelle altrui. Si ride degli altri come di se stessi, in una fratellanza che non ci umilia, ma ci aiuta al contrario a portare e sopportare i pesi gli uni degli altri. C’è il riso che abbonda sulla bocca degli stolti. E c’è quel riso che invocava Tommaso Moro, perché nella vita si possa riconoscere un po’ di gioia e farne parte anche ad altri.