Nuovo Galles del Sud, Australia, è il giorno di Natale, il 25 dicembre 2009. Brodie Donegan, alla trentaduesima settimana di gravidanza del suo secondo figlio, esce di casa per fare una passeggiata, “giusto per sgranchirmi le gambe e i muscoli doloranti” dirà. Passano solo venti minuti quando una macchina piomba violentemente su di lei procurandole ferite gravissime: l’autista, si saprà in seguito, è sotto effetto di stupefacenti. Brodie subisce danni pesanti alla spina dorsale, all’anca e a una gamba, ma soprattutto perderà la figlia che aspettava. Al suo ricovero in ospedale infatti, nonostante lei chieda venga effettuato un parto cesareo, si segue la classica procedura, cercare di salvare la vita della madre prima che quella del bimbo che porta in grembo. “Non voglio essere una vittima, voglio essere considerata una sopravvissuta” ha detto Brodie a ilsussidiario.net.



“Voglio che nostra figlia sia ricordata. Non voglio che una cosa analoga possa più succedere”. Brodie da allora è infatti protagonista di una lunga battaglia perché l’autista che la investì venga accusato anche della morte della bambina che portava in grembo, cosa che però secondo la legge del Nuovo Galles del Sud, lo stato australiano dove è avvenuto l’incidente, non è possibile: si considera infatti un essere umano solo colui che, estratto dal grembo materno, abbia rilasciato il primo respiro. Brodie, che è pro choice, dunque per la libertà di aborto, non accetta però che Zoe, come lei e il suo compagno volevano chiamare la bimba, non venga riconosciuta un essere umano. La proposta di legge ispirata al suo caso ha scatenato la protesta delle associazioni abortiste che temono la riduzione della possibilità di interrompere la gravidanza. Un caso, quello di Zoe, che svela tutte le contraddizioni delle legislazioni sull’aborto.



La legge del Nuovo Galles del Sud in materia è molto chiara: se un bambino non ha rilasciato il suo primo respiro fuori della pancia materna, non è possibile considerarlo un essere umano come invece lei da allora sta chiedendo.

Fin dall’inizio ho voluto chiedere l’incriminazione dell’autista per aver causato la morte di mia figlia (non per omicidio), perché consideravo nostra figlia più importante delle mie ferite e meritevole di un giudizio separato per la sua morte. Secondo le leggi attualmente in vigore nel Nuovo Galles del Sud, il neonato deve respirare per poter essere poi dichiarato morto; se il bambino non è in grado di respirare, non viene riconosciuto come separato dalla madre e i danni che riporta si considerano procurati alla madre. La legge prevede però che, se il neonato ha venti o più settimane (o pesa 400 e più grammi), gli venga fatto il funerale, venga redatto un certificato che attesti che è nato morto, gli si possa dare il nome, si possa chiedere una sovvenzione statale. In alcuni posti di lavoro viene concesso anche un periodo di licenza.



Ma sua figlia non era “nata”, stando alla legge.

Io ho subito notevoli danni: fratture al bacino, il distacco dei muscoli di una coscia, la rottura di un piede, di una vertebra e di una costola. Inoltre lacerazioni alla testa per essere stata proiettata attraverso il parabrezza. Ci sono volute tre ore per tirarmi fuori e portarmi in ospedale. Quando sono arrivata in ospedale, si poteva ancora sentire il battito del cuore di mia figlia, ma si sono occupati prima di me e lei non ce l’ha fatta. Due ore dopo l’arrivo in ospedale, cinque dopo l’incidente, le condizioni di mia figlia sono diventate disperate.

 

E’ la classica procedura che si tiene in molti di questi casi, pensare prima alla madre e dopo al feto…

Se fossi arrivata prima e fossi stata operata prima, il risultato avrebbe potuto essere diverso. I dottori hanno cercato di rianimarla, ma senza successo. Mia figlia era già circa 43 cm e quasi 2 chili e, in altre circostanze, sarebbe molto probabilmente sopravvissuta. Dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo averla tenuta in braccio, averle dato un nome e averle fatto il funerale, non posso capire che mi venga detto che per la legge lei non “conta”. Non crediamo che debba essere messa “in conto” alle mie ferite, è stato molto più difficile recuperare dalla sua perdita che da tutte le mie ferite. La sua perdita è stata sofferta da tutta la nostra famiglia, deve essere riconosciuta e la guidatrice deve assumere la responsabilità delle sue azioni.

 

La sua è una richiesta di riconoscimento della dignità umana anche per il feto, si può paragonare a quanto dice la Chiesa, “il riconoscimento della vita sin dal momento del concepimento”. E’ così?

Penso che sia una domanda difficile e che possa avere risposte differenti secondo le persone. Per me, da quando ho capito che ero incinta ho cominciato con il mio partner a immaginare la vita con questa bambina, come lei poteva essere, e questi pensieri sono diventati più forti e certi a mano a mano che la gravidanza proseguiva. Si tratta di un’esperienza del tutto personale e io non sono necessariamente d’accordo che inizi con il concepimento, credo che dipenda dalla persona, dalle sue credenze e dalle circostanze. Io ho cominciato a sentire tra le 20-22 settimane che era più “reale” e a essere meno ansiosa verso la possibilità che potesse succedere qualcosa come un aborto spontaneo e a pianificare il futuro.

 

Fino alle 20 settimane rimarrebbe applicabile la legge attuale, per la quale i danni al feto non sono riconosciuti se non come danni alla madre.

Io continuo a pensare che non imputare la sua morte è negare la sua vita. Per me e il mio partner lei era viva, aspettavamo di vederla e la figlia che già abbiamo, di due anni, aspettava di diventare la sua sorella maggiore. I nostri genitori attendevano la loro nuova nipotina, avevamo già comprato vestitini e preparato la sua cameretta. La sentivo scalciare nella mia pancia e lei ha resistito a lungo dopo l’incidente, ha tentato di sopravvivere. Lei ha perso noi e noi abbiamo perso lei. Un processo separato per la sua morte è riconoscere la sua perdita, la gravità di questa perdita e costringere il responsabile ad assumere le proprie responsabilità.

 

Dal suo caso sono nate due proposte di legge, l’ultima delle quali sta per essere discussa al parlamento del Nuovo Galles del Sud. Molte appartenenti ad associazioni femministe accusano questa legge, in caso venga approvata, di attaccare il diritto di aborto, di ridurne le possibilità. Si dice che se il feto viene riconosciuto come essere umano, esse avranno meno possibilità di abortire.

Non sono assolutamente d’accordo con questa argomentazione. Quanto da noi proposto insieme all’onorevole Chris Spence, ed è il contenuto della “Legge Zoe 2”, è che vi sia un processo separato per i danni provocati al feto, ma che non può includere quanto fatto dalla madre o con il suo consenso, né può essere usato in relazione a interventi medici o contro i dottori che assistono la donna durante la gravidanza. La proposta di legge non tocca perciò in nessun modo l’aborto, né la vendita di pillole abortive. La nostra proposta prende in considerazione solo crimini particolarmente gravi e violenti e prevede undici casi (come la guida pericolosa, l’aggressione a mano armata, e così via) per i quali il feto da 20 settimane in su viene considerato una persona. Negli ultimi dieci anni sarebbero ricaduti sotto questa legge quattro casi.

 

(Paolo Vites)