La notizia della strage avvenuta ieri a New York, in cui una madre trentasettenne e i suoi quattro figli (il più piccolo di diciotto mesi) sono stati accoltellati in casa da un cugino, è circolata in tutto il mondo corredata dalla definizione di “ennesimo massacro”. Si tratta di una famiglia di origine cinese e il parente, subito fermato dalla polizia nell’appartamento stesso della strage che si trova nel quartiere newyorkese di Brooklyn, soffre di disturbi mentali. “Quando gli agenti sono arrivati sul posto” ci riportano le agenzie “l’assassino era a piedi nudi e coperto di sangue. È rimasto impassibile mentre le ambulanze portavano via le vittime”. 



Oltre al fatto, terribile in sé, è impressionante una serie di elementi che cominciano a toccare le parole stesse con cui raccontiamo queste tragedie: proprio la questione dell’ennesimo massacro, ad esempio, come se dovessimo un po’ rassegnarci a fatti ritenibili endemici di certe società, soprattutto di quella americana (ma anche della nostra, ormai); oppure il disturbo mentale, come causa scatenante a cui non si può fatalmente opporre nulla; infine quello sguardo impassibile, quell’estraneità dell’uomo che ha commesso l’assassinio. Ma è davvero così?



I dati della realtà sembrano indicare l’opposto. A chi afferma che delitti del genere sono accaduti in ogni epoca e in ogni luogo, le statistiche controbattono il contrario: certe cose accadono presso alcune nazioni e altre no, anche se la violenza è dovunque. Ma non è normale, in qualche modo “umano”, entrare in una scuola, un centro commerciale, un appartamento e massacrare chi ci si trova. Soprattutto non è normale quello sguardo attonito, assente, come se una volta compiuto il fatto la cosa non riguardasse più l’autore. Forse la malattia mentale, in questo caso, può giustificare l’assenza, la trance dell’assassino dopo il delitto, ma qualunque commissario, avvocato o giudice può dirci che sempre meno chi ha compiuto un crimine lo ammette, anche in presenza di evidenze schiaccianti. Non è solo la mente ad essere malata, ma anche la coscienza. Che, semplicemente, sta scomparendo.



A proposito poi di malattia mentale, non sarà difficile a chiunque abbia familiarità con gli operatori del disagio, gli assistenti sociali, gli psicologi reperire i dati di una preoccupante crescita di persone mentalmente instabili. L’autismo infantile, ad esempio, sta avendo un incremento preoccupante. C’è chi parla della nostra società come un luogo naturalmente autistico, cioè un luogo in cui è difficile entrare in rapporto con la realtà. Certo, facendo un giro in autobus o metropolitana e vedendo quanti si isolano con le cuffiette da ciò che sta intorno, è difficile contraddire questa affermazione.

Dov’è il gusto del chiacchierare, la curiosità per il mondo, l’andare verso l’altro? Forse è arbitrario collegare i fatti di Brooklyn con questi dati. Viene però da chiedersi chi avrebbe potuto aiutare quella disgraziata famiglia con un cugino mentalmente disturbato; con chi può parlare il ragazzo che, perso nella smisurata solitudine in cui tanti vivono, sente crescere in sé pensieri e manie che si focalizzano alla fine su un oggetto da sterminare; quali trame di relazioni, di affetti, ma anche di significati, destini, visioni positive della vita mancano a tantissimi nostri compagni uomini? No, quello che è avvenuto a Brooklyn non sarà mai normale.