Quando arrivo a casa di una mamma con la mia grande borsa ostetrica, tutti mi si avvicinano circospetti. Mi scrutano, mi salutano, a volte mi abbracciano se già mi conoscono; e in quel caso già sanno ciò che farò.
La mamma si sdraierà sul divano, scoprirà il pancione, appena un po’; io mi avvicinerò guardinga, magari con un metro a nastro in mano, misurerò il fondo uterino. Delicatamente lo sfiorerò, poi, con pressioni leggere dei polpastrelli, comincerò a cercare il bambino, la sua posizione, sorrriderò perché lui, sollecitato dai miei tocchi invadenti, mi scalcerà facendo piccole colline semoventi sulla pelle.
Infine da quella borsa estrarrò lo strumento magico, il microfono grigio; e il gel, insomma l’apparecchio a ultrasuoni. E ascolteremo finalmente il cuore del bimbo.
E capirò molte cose: mi farò un’idea della sua energia, della sua allegria, a volte del suo sesso: già in pancia i maschietti fanno maggior baccano.
E capirò molte cose anche dall’espressione del viso di chi, accanto a me, lo ascolterà: se la mamma sia insicura, se ne sarà sollevata, se invece sorriderà con la condiscendenza di chi sa di custodire un gran tesoro. Se ci sarà il papà lo osserverò di sottecchi; gli uomini spesso fanno domande tecniche sul mio apparecchio, nascondendo l’emozione; ma che appare lampante al primo suono, così forte da dover essere contenuta.
I regali più belli sono però quelli che mi fanno i bambini; i piccoli musi curiosi, di pochi anni, gli sguardi un po’ di sfida e di sottecchi dei più grandi: accendo l’apparecchio, appoggio il microfono e… stupore, gioia, sorpresa, e… il fratellino diventa improvvisamente qualcuno che c’è. Presente fra noi, in quella stanza.
Smette di essere un feto e diventa fratello.
Certi piccoli si ingelosiscono subito: frignano, vogliono essere presi in braccio. Cominciano a considerarmi una persona pericolosa: mi lanciano occhiatacce. Io rido.
Tutti ridiamo. La gioia dilaga.
Nessuna fotografia fa l’effetto di quel battito sonoro.
Ha una forza prorompente e non è una questione di volume. Ma di presenza. Di risonanza. Quel battito ci attraversa interamente, vibra in noi e entra in sintonia col nostro battito.
È indubbiamente uno degli attimi più belli del mio lavoro, e me lo godo.
Non mi sono stupita quindi del video che è stato diffuso in rete, quello che riguarda la mamma Carolina Sepe: lei da mesi ormai custodisce all’ospedale Cardarelli nel suo corpo in coma un battito vitale. Ne ha parlato già la brava Monica Mondo da queste pagine con un articolo bellissimo.
Siamo scandalizzati dall’intrusione nella privacy della famiglia di Carolina, della diffusione in rete delle immagini ecografiche, il sonoro battito acquoso messo in apertura dal montaggio.
Ma va bene così, mi dico.
Che serva a qualcosa quel cuoricino potente.
Che sappiano tutti che a un feto batte il cuore.
Che comincia a battere già a 5 settimane.
Che lo vedano fare le capriole nella pancia della sua mamma.
Si emozionino. Sia un bambino presente nelle coscienze di tutti.
Ne parlano tutti i giornali, il miracolo di una mamma che consuma sé stessa e trattiene la vita che cresce. Con il cervello passato da parte a parte da una pallottola omicida, con il cuore che tiene duro e tiene anche per il cuore più piccolo. Un miracolo silenzioso e inevitabile: chi potrebbe staccare la spina? Chi potrebbe dubitare anche per un solo momento se vale davvero la pena di tenerla attaccata alle macchine della rianimazione, nutrirla con un sondino, sedarla di farmaci, alla vista di un feto che scalcia e all’udito del suo cuore vivace?
Ora ha raggiunto le 17 settimane, ancora in tempo per un aborto terapeutico nei termini di legge; nel suo caso però la legge ha fatto una capriola di senso: non è il feto il pericolo per la vita della madre, ma lui ne è la ragione.
Aveva appena 10 settimane quando lei è stata colpita al cervello (sentiamo nel video il neurochirurgo che lo definisce “abbastanza devastato”), chissà se lui (o lei) abbia sentito lo sparo. Certo si è fatto sentire, ha resistito: i medici si sono interrogati (ma neanche tanto a lungo) se riguardarlo, tenere conto della sua presenza; sì, c’era, hanno scelto la terapia materna più adeguata per il piccolo. Hanno lottato. Lo hanno salvato. Grazie dottori.
E adesso è sempre lui, che da dentro la pancia lancia messaggi chimici alla mamma, la sta chiamando; alleggerita dalla sedazione, lei piange e reagisce alle parole del marito, del suo primo figlio.
Lasciamo allora che chiami anche noi, che chiami i nostri ragazzi e i nostri frequentatori di internet: sono un bambino reale, ci dice.
Lasciamolo guardare alle nostre figlie, lasciamole tremare al sentire la meraviglia di quella risonanza, funzionerà meglio di tutte le lezioni sui contraccettivi, sulle pillole abortive e dei giorni dopo. Lui ha resistito a pallottole, mica a delle pillole.
Lui è tutto quello che siamo stati noi, io e te, chiunque abbia una cicatrice ombelicale.
Lui è un tesoro. Sonoro.