Ecco una perfetta, emblematica vicenda kafkiana dell’Italia del ventunesimo secolo, quella del rigore, economico e morale, e soprattutto della giustizia e della moralità, che è proprio uguale per tutti, ma in questo caso, come in molti altri, è uguale al contrario. Come comincia Il processo, romanzo splendido della modernità distorta dall’apparato burocratico fino alla disumanità, di Franz Kafka? In questo modo: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. Poiché senza che avesse fatto alcunché una mattina venne arrestato”. E’ l’inizio dell’incubo della post-modernità. In fondo ad Antonio Saladino, oggi cinquantanovenne calabrese di Lamezia Terme, con due figli e una splendida moglie, accadde una cosa simile tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Antonio Saladino, noto a tutti come Tonino, riesce attraverso la Legge Biagi, il cosiddetto lavoro interinale e come funzionario per il Sud di Obiettivo lavoro, a dare un’occupazione a 700 calabresi, in una zona dove lavorare, dove trovare lavoro, è sempre una scommessa che si perde, se non ci si piega a determinati comportamenti.



Ma nel febbraio del 2007, che cosa succede Saladino?

Mi viene notificato un avviso di garanzia dalla procura di Catanzaro per truffa alla Comunità europea, abuso di fondi europei e anche per violazione della legge Anselmi sulla massoneria, per un collegamento, per me del tutto incomprensibile, con la Loggia di San Marino.



Da quel mese di febbraio 2007 sono passati quasi sette anni. Attraverso un girone infernale di tribunali, sentenze, capi d’imputazione (saranno ben 40) comincia l’incubo, il suo calvario, che termina due giorni fa, per fortuna in modo diverso dal racconto di Kafka: la Cassazione la assolve perché il reato non sussiste. Saladino, le hanno rubato sette anni di vita. Quando tutto è incominciato lei aveva 53 anni ed era pieno di entusiasmo per il suo lavoro.

E’ vero, mi hanno rubato sette anni di vita, sono cambiato. E in fondo, con tutti quei capi di imputazione, per cui, stranamente, non chiesero mai neppure provvedimenti cautelari, era come se mi sentissi in prigione.



Forse qualche smemorato, di cui il Paese gode di un primato incontrastato, avrà rimosso quella che venne definita l’inchiesta “Why Not”, con in plancia di comando e direttore delle indagini il pm Luigi De Magistris, oggi diventato il “reuccio”, cioè il sindaco di Napoli. L’inchiesta imperversava non solo in procura a Catanzaro, ma divenne oggetto di una guerra tra le procure di Catanzaro e Salerno e arrivò a sfiorare esponenti politici come Clemente Mastella e Romano Prodi. Ma soprattutto (in questo caso c’è un peggioramento rispetto ai tempi di Kafka) divenne materiale di consumo per i grandi media. Lei si ricorda, Saladino, quanto parlarono di lei e di quell’inchiesta?

Su questo sono piuttosto aggiornato. Il calcolo che è stato fatto è quello di circa 5500 articoli di giornale e ben 30 ore di trasmissioni televisive. Tre trasmissioni furono confezionate da Michele Santoro e dai suoi scooppisti, Una arrivò anche su La7. L’unica cosa che adesso posso fare è quella di chiamarli almeno in causa. Anche perché oggi, si domandano tutti, dove sono finiti quei titoloni sull’inchiesta e contro di me personalmente? Dove sono finite le ricostruzioni televisive? Penso che attraverso i grandi media che hanno parlato di me non ce ne sarà uno che ridarà lo stesso rilievo di quando ero accusato. Credo che non metteranno neppure una smentita nelle lettere al direttore. Anche se ci sono stati giornalisti che si sono comportati bene, come Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama, che mi ha messo pure nel suo libro dal titolo più che significativo, La gogna.

Ripercorriamo a grandi linee il suo incubo, Saladino. 

Che dire? Dopo l’avviso di garanzia non vengo neppure interrogato, mentre io continuo a chiedere di essere ascoltato. Rilascio addirittura un’intervista per chiedere di essere interrogato. Alla fine mi ascolta un pool di magistrati che aveva sostituito De Magistris e io mi difendo spiegando la Legge Biagi. Ma non pareva che facesse loro effetto. In tutti i casi, sicuri di non aver commesso alcun reato, io e il mio avvocato affrontiamo il primo processo con rito abbreviato e vengo condannato a un anno e nove mesi per concorso in abuso d’ufficio. Poi ho dovuto aspettare un altro periodo di tempo per l’appello, dove addirittura mi arriva una stangata di tre anni e nove mesi per associazione a delinquere semplice. Infine, l’altro ieri, l’assoluzione in Corte di Cassazione.

 

Lei mi ha detto che è cambiato, che questo fatto l’ha cambiata. E la sua famiglia?

Mia moglie è una splendida donna che mi è stata sempre vicina, ma ha sofferto moltissimo e ancora adesso attraversa una fase di depressione. Può immaginare come sto io: alterno momenti di buona salute a momenti in cui sto veramente male. Poi ci sono i miei figli. Lui, anch’egli con sindrome depressiva, lei che vuole abbandonare gli studi che faceva a Milano. E sono stati male anche mio fratello e mia sorella, hanno ovviamente sofferto.

 

E il lavoro?

Completamente azzerato. Abbiamo cercato di tirare avanti in famiglia con il lavoro di mia moglie e un piccolo negozio di caramelle che avevo io. Abbiamo cercato di sopravvivere.

 

Mi scusi se tocco un altro argomento. E gli amici, Saladino?

Si sono comportati come nella parabola dei dieci lebbrosi, uno su dieci mi è stato vicino.

 

Un autentico tritacarne.

Bisogna attraversare un fatto del genere per comprendere fino in fondo che macchina infernale può diventare la giustizia. La Cassazione decide che il reato non sussiste e oggi non posso solo fare il calcolo dei sette anni di vita perduti.

 

(Gianluigi Da Rold)