A poche ore dalla tragedia di Lampedusa, la politica è già tornata a litigare sulle colpe da attribuire ai rispettivi avversari. In particolare, il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, e il presidente del Senato, Piero Grasso, si sono detti convinti della necessità di superare la legge Bossi-Fini che, in Italia, regola l’immigrazione. Per il primo, rappresenta il frutto della paura; per il secondo, va stemperata «per evitare che qualcuno, per non incappare nel reato di favoreggiamento dei clandestini o dello sbarco di clandestini, possa evitare di dare soccorso a persone che stanno per morire». Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha replicato: «ma cosa c’entra ora la Bossi-Fini», «si immagina di fare pretestuose polemiche per raccattare qualche voto non bene odorante». Adolfo Urso, viceministro dello Sviluppo Economico con delega al Commercio Estero ai tempi dell’approvazione della legge, attualmente presidente di FareFuturo, ci spiega cosa ne pensa del dibattito.
Cosa c’è, secondo lei, che non va nella Bossi-Fini?
Il problema non riguarda la legge italiana. L’Italia sta facendo tutto il possibile per accogliere queste persone. Molto di più di quando abbiano fatto altri Paesi, quali Malta e Spagna. D’altra parte, la legge regola, in particolare, l’immigrazione clandestina. Nel caso in questione, invece, parliamo di uomini e donne che devono godere dello status di rifugiati politici. La loro accoglienza, quindi, non rientra non tanto e non solo nella nostra tradizione e nella nostra cultura, ma anche e soprattutto nello spirito della legge. Il problema, dunque, è un altro.
Quale?
Ciò che sta accadendo al di là del mediterraneo è una tragedia enorme, totalmente sfuggita ad ogni previsione. All’immigrazione proveniente dall’Eritrea, fenomeno conosciuto da anni, si è aggiunta quella proveniente dalla Tunisia, dalla Libia o dall’Africa sub-sahariana; inoltre nessuno, fino a pochi mesi fa, avrebbe mai immaginato che ci sarebbero stati un milione di profughi provenienti dalla Siria.
Queste persone sbarcano in Italia alimentati, spesso, da false speranze. In tal senso, i respingimenti, previsti dalla legge, possono essere parte della soluzione?
No. Basti pensare alle condizioni in cui versano quanti vivono in Eritrea, in un campo profughi giordano, in Siria, nel Medioriente o in Africa. Parliamo di uno stato di povertà assoluta, assenza di sicurezza, e mancanza di speranze per il futuro. Neanche un’Italia dipinta con il più alto tasso di disoccupazione immaginabile può persuadere queste persone che il nostro Paese sia un luogo meno accogliente del loro. Soltanto l’Unione Europea, quindi, può essere in grado di affrontare dinamiche del genere.
Cosa dovrebbe fare effettivamente l’Europa?
Anzitutto, deve iniziare a dotarsi di una politica per il Mediterraneo. Cercando una soluzione, per esempio, al dramma siriano, al confronto tra Etiopia ed Eritrea, o alle turbolenze dei Paesi della primavera araba. Senza, è ovvio che gli abitanti di queste zone continueranno a fuggire dai teatri di guerra. Purtroppo, l’Europa è ancora profondamente divisa. Detto questo, rispetto alle circostanze attuali, l’Ue deve pensare a come accogliere le persone che sbarcano sul nostro territorio.
Come?
Ricordandosi, tanto per cominciare, che l’Italia è solamente la prima linea. I migranti approdano al nostro Paese con l’idea di entrare in Europa. Magari per ricongiungersi con i propri parenti o con i membri della propria comunità che stanno in altri Stati. Occorre che anche in questo caso l’Ue si dimostri unita, e che riconosca che la questione è un problema comunitario, non dell’Italia. Di conseguenza, potrà individuare politiche economiche e politiche del lavoro comuni in grado di accogliere l’immigrazione tenendo conto delle differenze e della situazione dei vari Paesi. E’ evidente, per esempio, che in questa fase storica l’Italia non è in grado di offrire occupazione.
Perché, finora, l’Europa ha fatto poco e nulla?
Per lo steso motivo per cui, finora, ha fatto poco e nulla rispetto alla politica economica e a quella occupazionale. Il processo di unificazione si è arenato. In tal senso, è stato un grave errore non conferire le principali cariche europee a leader politici. I grandi Paesi hanno preferito evitare personalità di spicco. Per intenderci: se il presidente del Consiglio europeo fosse stato Blair, o se quello della Commissione fosse stato Aznar, forse si sarebbero trovate ben altre soluzioni. Per interessi di pochi Paesi, l’attuale Europa rappresenta la sommatoria dei configgenti interessi dei vari Stati.
(Paolo Nessi)