In Val di Susa le proteste e gli episodi di violenza hanno abbondantemente superato il livello di guardia, tanto da spingere Napolitano a scrivere una lettera alla Stampa in cui, oltre a esprimere solidarietà a Massimo Numa, il cronista del quotidiano torinese cui è stato inviato un hard disk esplosivo, ha invitato a mettere da parte ogni «tolleranza e ambiguità». Il capo dello Stato ha, inoltre, parlato «di una escalation di violenza che dalle cose si trasferisce sulle persone e che caratterizza gli “obbiettivi criminali delle frange estreme” cresciute ai margini del movimento No Tav snaturandone ogni legittimo profilo di pacifico dissenso e movimento di opinione». Marcello Maddalena, procuratore generale della Procura del Tribunale d’Appello di Torino, ci dice la sua sulla vicenda.



Come valuta la situazione?

Personalmente, non credo che per gli appartenenti al movimento No Tav (che tra di loro si conoscono e abitano nella valle) sia difficile capire se vi siano infiltrazioni di elementi che approfittano delle vicende e della contrarietà all’opera, del tutto legittima da parte di una quota della popolazione, per commettere atti di violenza realizzati con una evidente volontà di opposizione alle istituzioni.



Perché lo pensa?

Le infiltrazioni provenienti dall’esterno sono facilmente riconoscibili perché si tratta di persone che non dovrebbero essere conosciute dai locali, e che per commettere atti di violenza spesso usano strumenti offensivi e talora sono travisati: quindi sono riconoscibili dai “movimentisti legalitari”.

Crede che il movimento, in tal senso, abbia delle responsabilità?

Al di là delle eventuali responsabilità giuridiche, che vanno esaminate e dimostrate in relazione ai singoli episodi, vi sono quantomeno delle responsabilità dal punto di vista morale. Non condannare con forza le infiltrazioni e gli episodi di violenza è un grave errore da parte dei No Tav perché, oltretutto, delegittima la loro battaglia politica. Sono, per questo, del tutto d’accordo con il capo dello Stato e con Caselli quando dicono che bisogno rimuovere ogni ambiguità.



Quali sono le maggiori difficoltà da parte dello Stato a contenere il fenomeno?

Queste domande andrebbero rivolte, anzitutto, al ministro degli Interni e a quello della Difesa. Quel che è certo è che un’opera come la Tav richiede anni per essere realizzata. Un militarizzazione del territorio per un così lungo periodo non è facilmente accettabile e ancora meno facilmente praticabile. Inoltre, spesso i violenti provengono da altre parti d’Italia, se non addirittura dall’estero. Con la capacità di mobilitazione che offrono i tempi moderni, già di per sé l’identificazione non è impresa semplice. Tanto più che, spesso, agiscono mascherati. Il che rende complicato anche attribuire un reato preciso ad un’identità precisa. Altra difficoltà consiste nel dimostrare l’esistenza di forme associative eversive tenendo distinti coloro che si mantengono nei limiti della legalità da quanti li superano. Da questo punto di vista, la Procura di Torino è sempre stata attentissima a separare i due piani e a non criminalizzare il movimento come tale.

 

Qual è la matrice di questi fenomeni?

Si tratta soprattutto di appartenenti all’area anarco-insurrezionalista presente in tutto il mondo che, da anni, pratica la contestazione puramente distruttiva.

 

La situazione francese è analoga a quella italiana?

La mia impressione è che lì i problemi siano inferiori proprio perché non ci sono quelle ambiguità che nel costume e nella cultura italiane, invece, esistono. Una storia antica. Benché, per entità e ampiezza, siamo distanti dal paragonare il fenomeno a quelle delle Brigate Rosse, ha ragione Caselli quando parla del rischio di pericolosissime derive estremistiche e afferma la necessità di creare la stessa atmosfera di condanna della violenza senza se e senza ma che si dimostrò indispensabile per la svolta nella lotta al terrorismo rosso.

 

(Paolo Nessi)

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