Ho letto su un blog o forse su Facebook o su Twitter, non certo su un giornale di carta, che un tipo (o una tipa) sta cercando consensi per dire che l’autunno è tutto tranne che una bella stagione. Chissà quanto e dove troverà dei consensi, mentre da par mio resto con Giacomo Bologna che allo scrittore Franco Piccinelli, in un bar di Neive, un giorno disse, “a mi ‘n piòs l’istà, ma l’è csi bel l’invern”. Tradotto: “A me piace l’estate ma è così bello l’inverno”, cioè tutto, per uno che in maniera straripante amava la vita. La scansione delle stagioni, del resto, sono una parabola della vita. C’è l’autunno degli anni, ma dipende, così come c’è l’autunno della politica… Poi passato l’inverno arriva anche la primavera (ma nel campo della politica sembra che sia saltata da qualche anno, secondo il detto che non ci son più le mezze stagioni). In ogni caso le stagioni hanno sempre dentro di sé una promessa e una sorpresa, che magari si coglie più fa vecchi che da giovani.



L’altro giorno ero a Colorno, il paese dominato dalla maestosa reggia, che oggi ospita una scuola di cucina internazionale. E con me c’era il rettore emerito Gualtiero Marchesi, accanto alla biondissima sindaca del paese, Michela Canova. La quale mi ha detto, con una certa sorpresa, che poche sere prima, al teatro Farnese di Parma, una platea di giovani berrette bianche hanno accolto Marchesi con un’ovazione straordinaria, come una star. Gualtiero Marchesi è, per intenderci, l’icona della cucina italiana, ha 83 anni e da meno di un mese ha annunciato che partirà con una nuova avventura che avrà la sua firma, ad Agrate Conturbia, in un castello tra il lago d’Orta e il lago Maggiore. Si può parlare di autunno in questo caso? Sì certo, l’autunno dei funghi e della cassoeula, dei piatti corroboranti che infondono un ché di calore, ma non certo quello dell’età, che si sublima come un bicchiere di vino invecchiato, ricco di sfumature.



Con Marchesi, che Luigi Veronelli aveva soprannominato Il Divino, eravamo in giuria per decretare il miglior Tortèl Dòls di Colorno preparato da otto azdore (è il nome che viene dato a quelle casalinghe coi muscoli di un fassone, tanto sono allenate a tirare la pasta) e ad un certo punto, in mezzo agli assaggi, ha tratto una massima brasiliana: “Lascia com’è per vedere come rimane”. Un monito agli chef che ricercano eccessive elaborazioni, gli stessi che in questi giorni vengono citati nelle classifiche delle guide, dalle quali Marchesi si tolse, polemicamente anni fa, in particolare dalla Michelin.



E ne aveva ben donde, essendo predestinato a ricoprire il ruolo di padre nobile della nostra cucina, con la soddisfazione di avere attorno tanti ragazzi assetati dei suoi saperi. Che lo applaudono, anziché giudicarlo. Perché quando uno diventa un maestro è di un’altra razza. Merce rara di questi tempi.

Sul detto brasiliano ha dunque reagito il presidente della Camera di Commercio di Parma, Andrea Zanlari, che è anche uno storico dell’alimentazione oltreché fratello di un cioccolatiere molto bravo, che ha raccontato come questi tortelli dolci, farciti di mostarda, si cuocevano la sera e poi si mettevano a riposare tutta la notte della vigilia, con tanto di burro e formaggi. Solo il giorno di Natale si friggevano, per servirli a pranzo aprendo un copioso Lambrusco. Bè a me l’autunno piace solo al pensiero del ripieno di questo tortello: mostarda (con pere nobili, anguria bianca, mele cotogne, limoni e senape), pan grattato, vino cotto e un tocco di confettura di susine. Alla fine dei nostri assaggi ha vinto il campione n. 8, all’unanimità, e solo 3 tortelli su 8, almeno per me, avevano superato la sufficienza. Ma quanta storia racchiude quel piatto, quanta dedizione e quanto dolce autunno c’è nel lento adagio di quelle azdore virtuose e orgogliose, che ti dicono: “E’ questa l’Italia!”

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