Roberto Saviano è in tribunale. Per testimoniare. Non quel che ha visto o sentito, ma le minacce ricevute, dice, dai legali di due boss del clan dei Casalesi. Un processo che ancora una volta è una ribalta, per uno sfogo. Saviano non ce la fa più, racconta tutta la sua vita, il girone infernale in cui è piombato dopo il coraggio della parola e della sua penna, prima e con Gomorra



A me fa una certa tenerezza, Saviano. Me lo figuro con l’immagine che ne ha superbamente trasmesso Checco Zalone in una delle sue più riuscite imitazioni. Con quegli occhi sgranati, liquidi, persi, come lui appare sperduto, fuori posto. Non condivido né l’amore idolatrico, la mitizzazione di Saviano, né l’astio, la stizza, che arriva fino a sminuire la sua produzione di scrittore (letteratura? Ai posteri l’ardua sentenza,  i contemporanei corrono troppo). 



Ha scritto Gomorra, testimonianza e denuncia. Purtroppo è diventato l’icona dei professionisti dell’antimafia, come li chiamava Sciascia. Purtroppo il suo autore, nonostante giovane, e impacciato, e con una lunga strada da fare, è diventato un simbolo, per i buoni e per i cattivi, che attaccandolo l’hanno ulteriormente isolato, innalzato sull’altare di una laicità civile che tanto ricorda il peggior clericalismo d’antan. 

Non ricordo altro di significativo, perché di fare lo scrittore non ne ha più avuto il tempo. Un’ospitata in tv, e non ti improvvisi istrione, o conduttore, manco se hai la spalla di un furbone come Fazio. Una presentazione, un convegno, una manifestazione, come una qualsiasi madrina appena eletta Miss Italia dell’anno. Un omaggio obbligato dei potenti di turno. Fino al ridicolo, mi pare, del tour per Napoli alla guida dell’auto scalcagnata di Giancarlo Siani, qualche giorno fa. Ennesima occasione per stare sotto i riflettori. Che lo stancano, e si stancano di lui. 



Così, avrebbe deciso di andarsene, di autoesiliarsi, per poter vivere in libertà, per ritrovare un’identità non immediatamente riconoscibile e inquadrabile. Uso il condizionale, perché sorge il dubbio che anche questa sua nuova uscita sia parte di una strategia promozionale. E spiacerebbe, perché Saviano ha ragione, se vuol staccare, se vuole essere se stesso, se non vuol più essere usato da certa cultura che ha bisogno di eroi popolari perché col suo snobismo capalbiese ha perso consensi. 

Ci ha guadagnato parecchio,  a diventare un punto di riferimento, soldi, onore, fama, il delirio di ragazzine che vanno alle sue presentazioni come ai concerti dei divi. Ma gira con la scorta, non può vedere i suoi parenti, ha abbandonato il sogno di poter lavorare in università. 

Certo ha paura, perché è facile essere indicato come un simbolo, più difficile portarselo sulla pelle come un marchio, e rischiare. Ha il diritto di avere paura, senza macchiare il ritratto confezionato, di non sentirsi addosso gli insulti e gli sguardi torvi di delinquenti. 

Voglio credere a Saviano, e sperare che abbia coraggio, quello di ritrovarsi. Pazienza se diranno che ha ceduto, pazienza se saranno privati di una bandiera, buona chissà, perfino per un seggio parlamentare. Si ritiri in una sperduta campagna d’America, come Salinger, a pensare, sistemando il giardino. E regali a noi e a se stesso un capolavoro.