Caro direttore,
la presa di posizione di monsignor Zollitsch, arcivescovo di Friburgo e presidente dei vescovi tedeschi, accelera la riflessione sul problema dei divorziati e risposati – che Papa Francesco ha già avviato – con una nota pastorale che dà delle indicazioni di comportamento su una questione tanto delicata quanto da sciogliere quale quella dei sacramenti a chi, divorziato, si risposa. 



La Diocesi di Friburgo intende mettere i fedeli e la gerarchia di fronte al fatto compiuto, facendo una scelta di campo ben precisa e con indicazioni concrete.

Tale scelta suscita due considerazioni. La prima attiene la trave portante delle scelte della Diocesi di Friburgo, cioè la misericordia. Accettare i divorziati risposati in Chiesa come persone cui si possono dare tutti sacramenti è un atto di misericordia, segno che la salvezza è per tutti e che sbagliare, nella vita – come si presume abbia fatto chi ha scelto il divorzio – non è mai definitivo, ma vi è sempre la possibilità di essere abbracciati da uno sguardo più grande dei propri errori. Questa è certamente una indicazione presente nella scelta di monsignor Zollitsch, la quale manifesta la dinamica della misericordia di Dio che sa cogliere il valore della persona dentro i suoi limiti e i suoi errori. La Chiesa, in altre parole, è chiamata a far sua la misericordia del Padre, portando lo sguardo di Cristo a tutti, uno sguardo che sa puntare sulla positività che ogni persona è e che supera infinitamente gli errori che può commettere.



Vi è però una seconda considerazione da fare, evocata dalla stessa misericordia. Nasce infatti inevitabile una domanda: la comunione ai divorziati che si risposano porta a considerare il matrimonio non più indissolubile? Del resto, se una persona che si è risposata può ricevere i sacramenti, non significa forse che la condizione in cui si trova è di una ritrovata libertà di fronte a Dio? E che dire della sofferenza del primo marito o della prima moglie? E se vi fossero dei figli che, avendo subito questa lacerazione, ne fossero segnati profondamente? Da queste domande, e si potrebbe continuare, si evince a mio avviso una cosa semplice. È giusto avere misericordia, ma al tempo stesso si è – per così dire – sul filo del rasoio di ciò che la Chiesa insegna, perché misericordia verso la persona non può significare rendere il matrimonio un legame che si può spezzare. E non è solo questione di principio, c’è molto di più: c’è la sofferenza che viene alle persone che hanno vissuto o subito quella decisione nella propria carne. Misericordia è avere a cuore chi si ricostruisce una vita dopo che ha sbagliato; ma anche avere a cuore tutti coloro che soffrono dentro situazioni di irregolarità.



Ebbene, la mia impressione di credente è che la scelta di monsignor Zollitsch abbia trascurato qualcosa della profonda esperienza di umanità propria della Chiesa, perché considera la misericordia al pari di una “sanatoria”, qualcosa come l’adozione di ciò che serve per essere messi in regola. Che un matrimonio fallisca non chiede qualche regola di reinserimento nella Chiesa: va di certo bene che un divorziato risposato venga riaccolto nella comunità, ma non basta questo, perché quando si spezza un legame di amore tra uomo e donna si porta dentro una ferita che permane, una croce che segna tutta la vita. 

Cosa vuol dire, allora, la riammissione ai sacramenti? È riconoscere come giusta una condizione che rimane ingiusta? O è restituire alla persona tutto il suo valore, fino a tracciare per lei una strada di conversione? La questione di fondo che viene posta sotto il tema dei sacramenti ai divorziati che si risposano è una sfida che si deve porre a chi di fatto ha rovinato l’amore che il Signore ha consegnato agli sposi.

Se il volto della misericordia è che la loro persona vale, perché non ritenere anche che la misericordia sia vivere il bisogno di amore che si porta, con il distacco che suggerisce l’errore commesso? Perché la Chiesa non dovrebbe continuare ad indicare la verginità come consiglio a chi ha sbagliato? 

La misericordia ha due facce: una è quella di Dio, l’altra è quella che l’uomo impara da Dio. La Chiesa le tiene presente entrambe. Anche perché vivere la condizione di mancanza è ciò che rende degni di quell’Amore che si incarna dentro le ferite di affetti traditi. C’è un cammino da fare dentro la misericordia, il cammino di una rigenerazione del proprio essere uomini di cui ha bisogno chi ha fallito in amore. Un cammino lungo e a cui non basta rimettere a posto delle regole di appartenenza. 

Sarebbe triste che a fronte di una ferita cui urge uno sguardo di amore, la Chiesa rispondesse con delle norme giuridiche. Ci vuole molto di più.

Lettera firmata