Un po’ in sordina, dietro il can can della politica dei nani e delle ballerine, si fa di nuovo strada la voce e il volto di Piero Marrazzo. La sua vicenda, presidente della regione Lazio e marito felice “beccato” in frequentazioni oscure a base di transessualismo e cocaina, sembrerebbe buona per un articolo di gossip, di quello morboso – denso di particolari – che piace tanto all’Italia. Invece, dopo l’intervista rilasciata dallo stesso Marrazzo a Vanity Fair – nella quale il giornalista si dice pentito e deciso a non tradire e mentire più –, vengono da porsi domande più profonde che, in un certo modo, la vicenda Marrazzo incarna ed esprime.



La prima, altamente provocatoria, è inerente la purezza: che cosa un politico, o un uomo di spettacolo, deve fare per essere legittimato sul palcoscenico della “reputescion” pubblica? Su questo tema la confusione regna decisamente sovrana: da un lato il nostro mondo chiede che le leggi permettano tutto e il contrario di tutto, dall’altro la vita privata degli uomini pubblici viene passata in esame dal circolo mediatico con un elevato senso della “moralità” e del “pudore”. Marrazzo, sulla carta, può farsi promoter di interventi legislativi volti a favorire l’integrazione sociale dei trans, la sconfitta del pregiudizio nei loro confronti, la “normalità” della loro presenza nella società e nelle istituzioni, dall’altro – però – lo stesso Marrazzo non può andare con loro se vuole continuare a presentare trasmissioni in Rai o fare politica. Certo, qualcuno potrebbe dire: il problema non sta nei trans, sta nel fatto che egli – interpellato sul tema – abbia apertamente mentito. Ma questo, a mio avviso, aggrava la situazione per cui, in definitiva, se ti beccano devi dire la verità, ma se non ti beccano è meglio. Si tratta dell’elogio alla doppiezza, all’oscurità, alla dissimulazione. Situazione che deve finire non appena il castello cade e il supremo tribunale mediatico avvia la sua requisitoria. Allora bisogna lasciare tutto e arrendersi, consegnandosi mani e piedi a coloro che, a tutti gli effetti, oggi costituiscono la vera e unica classe sacerdotale, i giornalisti.



La politica dei duri e puri, degli integerrimi senza peccato, non esiste. Esiste un tribunale che giudica e che osanna chi sa dissimulare meglio, chi non intralcia la casta degli editorialisti e dei commentatori che – con le loro penne – possono arrivare a cancellare nella culla tutti quelli per loro inadatti ad un ruolo di responsabilità e di rappresentanza nel nostro paese. C’è quindi una seconda domanda che la vicenda Marrazzo ci pone, più radicale di qualunque altra: se le cose stanno così, se ad essere sugli altari – oggi – è una sorta di illusione, di affettata ipocrisia, qual è l’origine del valore dell’uomo, qual è l’origine della sua dignità e della sua reputazione? 



La domanda è di quelle forti, senza via d’uscita. La riposta della vulgata è molto eloquente: l’uomo vale e può valere per quello che fa e, aggiungiamo noi sulla base di quanto documentato poc’anzi, per come quello che fa è giudicato dal potere. Il valore di ognuno di noi sembra essere soltanto quello della reputazione giornalistica.

Il grave errore odierno di Marrazzo sta nel fatto di ripresentarsi al grande pubblico “purificato”, allineato perfettamente agli standard morali ed etici definiti dai media, pronto a vivere – in nome di tutto ciò – una nuova luna di miele con il potere. Il problema è che tutto questo è solo un’illusione: se Marrazzo tornasse mai in politica, o concorresse mai ad una carica pubblica, subito le voci si riaccenderebbero e il suo passato – ancora una volta – lo terrebbe in gelido ostaggio. Il fatto è che il nostro valore non risiede nella nostra reputazione, ma nel fatto di essere voluti e amati da sempre. Così voluti e così amati da essere “creati” ora. Ogni uomo, in quanto creato, ha una vocazione, un messaggio destinato agli altri uomini. Il compimento di un’esistenza è la comunicazione piena di se stessi, di ciò che ultimamente costituisce e fa la propria vita. Per questo nessuno di noi ha bisogno di un Marrazzo purificato, reso idoneo al piccolo schermo, ma tutti noi abbiamo bisogno di un Marrazzo riconciliato, capace di guardare se stesso e le dimensioni della propria vita con affetto e generosità, con simpatia e libertà.

L’Italia non cresce stando nelle mani dei puri, cresce stando in quelle dei peccatori. Peccatori che mendicano continuamente la Misericordia di Dio. Questa foga vile con la quale si pretende di cancellare il peccato dell’uomo, rendendo abili alla politica solo i puri, altro non è che l’ennesimo tentativo di instaurare – nella storia – un potere ballerino e fantoccio al servizio del vero potere e della vera casta sacerdotale della nazione. Per questo, non senza amarezza, pensando a Marrazzo e alla sua storia, mi viene da dire che alla Regione Lazio il problema non erano le sue frequentazioni con i trans, ma l’incapacità di accettare il male e il peccato come costanti delle relazioni umane. Quell’incapacità che portava il nostro Piero ad assumere decisioni utopistiche e stataliste, prive di reale contatto con quello che lui era e che il mondo attorno a noi è. 

Sembra sempre poco, ma una politica così è davvero in grado di guidare l’Italia e di guardare al futuro. Per il semplice motivo che una politica che sa accettare se stessa non è mai ricattata da nessuno. Il futuro non si trova nei nostri splendidi schemi mentali di perfezione etica e morale, ma nella nostra capacità – semplice e coraggiosa – di accogliere tutto il nostro cuore. Un cuore che vale e che merita perché è voluto, perché è chiamato. Ora. È questo l’augurio più bello che possiamo fare ad un amico, ad un uomo, come Piero Marrazzo.