La legge italiana riconosce alla donna la facoltà di partorire nell’anonimato. L’accesso alla documentazione che permetterebbe di identificare colei che si sia avvalsa di tale facoltà è consentito a chi vi abbia interesse, compreso l’adottato adulto, solo dopo cento anni. Alla partoriente è dunque riconosciuto il diritto all’anonimato anche in caso di conflitto col diritto dell’adottato adulto a conoscere le proprie origini. La scelta politica sottesa a certe regole è facilmente riconoscibile: il legislatore italiano ha inteso proteggere la salute della donna e la vita del nascituro in tutte quelle situazioni di particolare difficoltà dal punto di vista personale, economico o sociale, in cui la prima abbia maturato la scelta di non tenere con sé il bambino. Alla donna viene infatti offerta la possibilità di partorire comunque in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’anonimato nella dichiarazione di nascita. Si è voluto così contribuire alla prevenzione degli aborti, in particolare di quelli clandestini, degli infanticidi e degli abbandoni di neonati. È solo per queste finalità che viene sacrificato il diritto dell’adottato adulto a conoscere l’identità di colei che lo ha messo al mondo.
Attualmente certe regole sono di nuovo soggette al vaglio di legittimità del giudice delle leggi, il quale, a quanto si apprende dalla stampa, si appresta ormai a rendere nota la propria decisione. Questa interviene dopo che, negli ultimi anni, le stesse regole sono già state oggetto di valutazioni contrastanti dapprima da parte della stessa Corte costituzionale e poi anche da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nella sentenza n. 425 del 25 novembre 2005 la Corte costituzionale ha infatti ritenuto che le norme sul parto anonimo siano «espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda» e ne ha perciò escluso l’illegittimità. Nella più recente sentenza del 25 settembre 2012 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (affaire Godelli c. Italie, n. 33783/09) ha invece reputato che la legge italiana, nel riconoscere alla donna il «diritto puramente discrezionale di mettere al mondo un figlio in sofferenza, condannandolo per tutta la vita all’ignoranza», attribuisce una «preferenza cieca all’esclusivo interesse della madre» con grave pregiudizio del diritto del figlio a conoscere le proprie origini, un diritto che sarebbe garantito dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo laddove riconosce a ogni persona il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Non c’è dubbio che l’impossibilità di accedere a determinate informazioni – si pensi in particolare a tutte le informazioni utili all’anamnesi clinica materna – potrebbe anche essere causa di gravi pregiudizi per la salute e la cura dell’adottato. Ma il legislatore nazionale non esclude affatto l’accesso a questo tipo di informazioni. Tutte le informazioni “non identificative” sono infatti sicuramente accessibili. In particolare, nel codice in materia di protezione dei dati personali è chiaramente disposto che, per tutto il periodo in cui deve permanere il segreto sull’identità della donna che ha partorito, sia pur con le opportune cautele volte a impedirne lo svelamento, può essere senz’altro accolta ogni richiesta di accesso che miri alla conoscenza di qualsiasi altra notizia relativa all’origine dell’adottato (art. 93, comma 3, d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196). Né la garanzia dell’anonimato della partoriente impedisce di per sé alle strutture sanitarie di provvedere alla raccolta di informazioni riguardanti la salute della donna o anche di notizie sulle sue condizioni di vita e sui motivi che l’hanno indotta alla scelta dell’anonimato: informazioni e notizie destinate a essere messe a disposizione degli adottanti affinché, a loro volta, possano adempiere ai propri doveri di informazione nei confronti dell’adottato.
Vero è che, a differenza di quanto avviene in altri ordinamenti che ammettono il parto anonimo, la legge italiana non ha previsto che, in un momento successivo (magari di fronte alla richiesta dell’adulto adottato di conoscere le proprie origini), la donna possa anche decidere spontaneamente e volontariamente di rimuovere il segreto sulla propria identità. È questo un punto sul quale un intervento del legislatore sarebbe forse opportuno, non essendo immaginabile al riguardo un intervento additivo del giudice costituzionale, che non potrebbe certo farsi carico di elaborare anche tutta la procedura necessaria a contattare la donna e a raccoglierne il consenso. Non sembra invece altrettanto opportuno un intervento volto a cancellare del tutto il diritto della donna a partorire nell’anonimato. Non sembra infatti per nulla irragionevole un’opzione legislativa nel senso che, nel bilanciamento tra il diritto dell’adottato a conoscere l’identità della donna che l’ha messo al mondo, da un lato, e la salvaguardia della vita del nascituro e la tutela della salute e della riservatezza della donna, dall’altro, debbano essere proprio queste ultime esigenze a prevalere.