È uscito in questi giorni “Quando il pane non basta”, un reportage di Alessia Guerrieri sulle mense dei poveri in Italia. Il volume, pubblicato dall’editrice Ancora, racconta in presa diretta storie di persone in difficoltà che abitualmente fanno la fila ai refettori della carità. Ma anche di volontari che, assieme a un pasto caldo, offrono un sorriso, rispetto e, non di rado, un aiuto a ricostruire un’esistenza. L’inchiesta della Guerrieri è anche una testimonianza del profondo cambiamento avvenuto in questi anni nella nostra società. Alle mense della carità, spiega nella prefazione Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio ed ex ministro dell’Integrazione, oggi non accedono più solo i senza fissa dimora, ma anche giovani laureati senza lavoro, stranieri, anziani, famiglie, padri separati, tutte categorie che stanno pagando con gli interessi il prezzo della crisi. “Storie di equilibristi sul filo della vita”, le definisce invece il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. Negli ultimi anni per molti italiani quel filo è diventato molto sottile, “troppo sottile. Alcuni cadono, e non li vedi più”. All’autrice abbiamo chiesto di raccontarci com’è nata l’idea del libro e quali sono state le scoperte più interessanti che ha fatto durante il suo viaggio.



Come è nata l’idea di un libro sulle mense dei poveri?

Unendo due coincidenze. La prima è che, essendo abruzzese, mi ero accorta che a L’Aquila la prima struttura rimessa in piedi dopo il terremoto era la mensa della Fraterna Tau, che in pochi giorni aveva triplicato i pasti. Lì per lì tuttavia non avevo dato grande importanza alla cosa.



L’altra coincidenza?

Per Avvenire mi sono occupata del problema degli aiuti alimentari provenienti dall’Europa che dal 2014 potrebbero subire una drastica riduzione. Queste due cose hanno fatto nascere l’idea di andare a conoscere quelle realtà che offrono da mangiare alle persone in difficoltà. Non da ultimo, al progetto ha contribuito anche la casa editrice che ha visto i miei lavori su Avvenire.

Da lì è iniziato un lungo viaggio che ti ha portato in giro per l’Italia. Raccontaci com’è andata

Per 8-9 mesi, quasi tutti week end sono stata in giro per l’Italia. Partendo da L’Aquila, sono andata a Chieti, dove c’è il Villaggio della Speranza, una struttura gestita da suore che lavorano nei campi e con il ricavato danno da mangiare e un alloggio a chi non ha più una casa e ha perso il lavoro. Poi sono stata in provincia di Rieti e di seguito a visitare le realtà della Capitale; non solo quelle della Caritas e di Sant’Egidio, ma anche tante piccole parrocchie che danno il pacco viveri ai poveri. Poi mi sono spostata al nord.



In quali città sei stata?

Sono stata a Milano, dove ho conosciuto gli amici del Banco Alimentare che mi hanno portato prima alla mensa di padre Giulio in via Canova, poi alla Fondazione Fratelli di San Francesco che gestiscono una mensa grandissima alla periferia sud di Milano in via Saponaro e infine all’Opera San Francesco che hanno una struttura molto organizzata. Da lì sono andata a Torino e successivamente nel nord est, la parte più ricca del Paese che però sta soffrendo parecchio gli effetti della crisi. Sono partita dal Trentino, da Bolzano che una volta, per gli italiani provenienti dal sud, era il corridoio per raggiungere il nord Europa. Ora non più.

Cos’è cambiato?

Le persone continuano ad arrivare a Bolzano sperando magari di lavorare lì. Ma oggi le vallate non riescono più ad accogliere e offrire lavoro. Sono stata in una mensa appena aperta dal Comune e dalla Provincia che si chiama La Sosta dove vivono immigrati italiani, ragazze madri, ecc e dove opera un’associazione che si chiama Volontarius che svolge un’attività molto particolare.

 

Cosa fanno di particolare?

 Per ovviare alla vergogna che molti trentini e bolzanini provano nel chiedere il cibo, di notte vanno in giro con un camper per portare da mangiare a questi poveri, nell’anonimato. Lì ho conosciuto tantissimi italiani, la maggior parte dei quali era gente del posto, che non hanno da mangiare e si vergognano a bussare e chiedere un pacco viveri. Poi sono ridiscesa in Emilia, nelle Marche e sono stata ad Ascoli perché volevo vedere che effetti ha avuto la crisi in provincia.

 

E cos’hai visto?

 Ad Ascoli sono stata all’Emporio della Solidarietà che è stato creato da una decina di associazioni di diversa provenienza, tra fondazioni bancarie, strutture diocesane, gruppi di semplici cittadini. Lì ho conosciuto una signora in pensione che prima faceva l’assistente sociale e che continua ancora ad aiutare i suoi ex assistiti facendo la spesa per loro che si vergognano o non possono recarsi a quel supermercato.

 

Il libro racconta storie di persone in grosse difficoltà, alcune davvero strazianti. Qual è quella che ti ha impressionato di più?

 E’ sempre difficile scegliere, perché sono tutte storie particolari. Te ne racconto due. La prima è la storia di un volontario “speciale”; perché il libro non parla solo di persone in difficoltà, ma anche di gente che aiuta le persone in difficoltà. Una delle cose che volevo fare con questo libro era proprio mettere in evidenza il legame che si crea tra chi va a chiedere cibo e chi ormai sente il bisogno di passare parte del suo tempo in una di queste mense per donare qualcosa.

 

Chi è il volontario speciale?

 Si chiama Davide; è un vecchietto arzillo che ho conosciuto a Milano. Per tantissimi anni è stato il braccio destro di Raoul Gardini. E dopo aver trascorso anni in carcere e dopo che la sua famiglia non ha più voluto saperne di lui è stato mandato a scontare l’ultima parte del sua pena alla mensa di via Saponaro. Ora che ha finito di scontare tutto quello che doveva scontare mi ha confessato che non può più fare a meno di andare almeno una volta al giorno, a pranzo o a cena, a servire alla mensa dei poveri. “Mi sento più ricco adesso”, mi ha detto una volta.

 

L’altra storia che ci volevi raccontare?

E’ capitata a Rieti, alla mensa di Santa Chiara. Era una domenica d’avvento e c’era una famiglia al completo che pranzava ad uno dei tavoli. Lui e lei che avevano perso il lavoro e i loro tre figli, uno dei quali con molti problemi di salute. Dopo dieci anni avevano ottenuto la casa popolare e adesso non sapevano come pagare le bollette. È difficile raccontare queste storie senza avere davanti gli occhi di quelle persone. Mi ha colpito la loro grande dignità. Sono persone abituate a vivere di poco o di niente. Ma che non sono disposte a cedere a scorciatoie. Il papà mi raccontava che gli avevano proposto di fare il corriere della droga ma lui ha preferito rimanere nella legalità “che è qualcosa di molto di più di una bella parola”. Ma di storie così ce ne sarebbero tantissime.

 

Continuerai ad occuparti di questi temi?

 Certo, continuerò a parlare di queste cose su Avvenire come ho sempre fatto. E anche il libro avrà un seguito che racconterà di tutte quelle realtà che in Italia a vario titolo si occupano di bisognosi, fornendo non solo alimenti ma anche indumenti, sistemazioni logistiche e così via.

 

Sabato 30 novembre ci sarà la Giornata della Colletta Alimentare, te la senti di lanciare un appello?

 L’appello è a donare, donare, donare. Comprensibile che si doni anche poco in un momento così difficile, con le famiglie che non ce la fanno. Ma basta davvero poco; con tanti piccoli granelli di sabbia si possono fare grandi dune. Mi auguro che anche questa volta gli italiani riescano a togliere qualcosa dal proprio carrello della spesa per darlo a chi è in difficoltà.

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