Ha destato scalpore la notizia dell’assoluzione (per la prescrizione del reato) pronunciata alcuni giorni fa dal Gup di Pescara nei confronti del marito di Teresa Bottega, Giulio Morrone, ritenuto colpevole di avere ucciso quest’ultima oltre vent’anni or sono al culmine di una delle frequenti liti che segnavano ormai da tempo il rapporto tra i due coniugi. Il corpo di Teresa Bottega non venne mai trovato, e pochi mesi dopo la sua scomparsa, non emergendo alcun indizio che potesse corroborare l’ipotesi di omicidio, il caso venne archiviato come episodio di volontario allontanamento da casa.



Il caso è stato riaperto alla fine del 2012 dopo che un “testimone” aveva segnalato alla Squadra mobile di Pescara di avere appreso dal prete confessore dell’uxoricida che l’autore del delitto era proprio il Morrone. Nel corso del giudizio abbreviato celebratosi davanti al Gup di Pescara lo stesso Morrone ha confermato di essere stato l’autore del delitto, ma il giudice ha ritenuto che non potesse ritenersi sussistente la circostanza aggravante dei “futili motivi”. La circostanza aggravante infatti – laddove riconosciuta – avrebbe reso l’ipotesi di omicidio contestata all’uxoricida punibile con la pena dell’ergastolo e per ciò stesso imprescrittibile.



Dirimente ai fini della dichiarazione di prescrizione dell’ipotesi omicidiaria contestata al marito della povera Teresa Bottega è stata, dunque, la diversa valutazione del giudice dell’udienza preliminare, il quale ha evidentemente ritenuto che la condotta del Morrone, pur brutale, non fosse stata determinata da motivazioni in sé risibili e pretestuose, ma dallo stato emotivo generato dai forti e laceranti contrasti interni alla coppia.

Sin qui la vicenda giudiziaria. Una vicenda giudiziaria che, se non fosse per la singolare coincidenza temporale tra il momento della riapertura delle indagini e quello dello spirare del termine di prescrizione del reato, nulla o quasi avrebbe da dire di diverso rispetto ai numerosi analoghi e tristi casi di “violenza familiare”.



Pare invece che il caso Bottega possa risultare significativo su di un altro – e ben più impegnativo – piano. In un articolo comparso su Il Fatto Quotidiano del 12 novembre scorso a firma di Bruno Tinti (già procuratore aggiunto del Tribunale di Torino) la sentenza in commento viene infatti annoverata tra i molteplici casi in cui esito del processo e giustizia intesa anche quale verità sostanziale purtroppo non trovano coincidenza. Insieme al caso Bottega l’articolista cita il caso del noto presentatore televisivo, Tortora – arrestato e condannato in primo grado ed assolto in grado d’appello – ed il caso dell’imprenditore Silvio Scaglia – arrestato e poi completamente scagionato dalle accuse formulate nei suoi confronti al termine del processo di primo grado. E non sono che degli esempi.

Insomma, questo in sintesi il commento del fondo, la sentenza emessa dal giudice non sempre è giusta e non sempre quel che viene acclarato corrisponde alla verità storica effettiva, e spesso ciò è reso palese proprio dalle sentenze del grado di giudizio successivo. Nondimeno non possiamo fare nulla per eliminare l’errore umano e non ci resta che accettare l’inevitabile tasso di ingiustizia potenzialmente insita in ogni provvedimento giudiziario. Del resto – conclude l’articolista – la “verità rivelata è solo per i credenti”.

Ora, su tale ultimo punto mi permetto di dissentire dall’opinione di Tinti. Che la Giustizia nel suo compimento ultimo e nella sua perfetta realizzazione non sia di questo mondo, non significa infatti che la “verità rivelata”, cioè ciò che i cristiani riconoscono come ideale già presente qui ed ora, non possa avere alcuna incidenza anche sul modo con cui un giudice già in questo mondo svolge le sue funzioni ed opera le sue valutazioni nel caso concreto.

La fede non è una pia illusione, né il termine di una visione staccata da un mondo che segue dinamiche opposte ed antitetiche, ma – come ricorda papa Francesco nella su recente enciclica – “illumina la vita” in tutti i suoi aspetti. Per usare una formula ancora più sintetica – quella di Benedetto XVI – “l’intelligenza della fede diviene intelligenza della realtà”, così che, ad esempio, per restare nell’ambito che qui interessa, il giudice chiamato a valutare il caso concreto potrà meglio avvedersi della complessità e della concretezza degli elementi fattuali sottoposti al suo esame, sarà portato ad essere più attaccato a questi che non al preconcetto con cui inevitabilmente ed in prima battuta si è portati a rapportarsi con ciò ciò che ci si trova di fronte, e farà dipendere la sua decisone da tali elementi fattuali più che dall’ansia di rispondere ad un attesa collettiva (si pensi, ad esempio, ai casi di giustizia sommaria nel periodo cosiddetto di Tangentopoli) o di conseguire a tutti costi un risultato spesso ideologicamente ritenuto necessario (si pensi alla “lotta alla mafia” di fronte alla quale vale anche la soppressione di ogni garanzia difensiva).

Così facendo il giudice ridurrà progressivamente – e non di poco – quel pur inevitabile margine di errore e di ingiustizia insito in ogni decisone umana.