Poche tradizioni come quella legata al 2 novembre, e alla memoria dei defunti, sono così sentite dal popolo cristiano. Esso, che nella gran parte dell’anno pare essere scomparso, immerso nel nulla che tutti noi attrae, in questa ricorrenza si manifesta, si raduna, si ricompagina silenziosamente, avvolto dall’uggia del tempo e da un certo pudore che la memoria del dolore porta con sé. Non esiste un sacerdote su questa terra che, dinnanzi a questo silenzioso sfilare di volti e di preghiere, non si interroghi sulla forza che il mistero della morte esercita su ogni uomo, unito alla percezione, scientificamente irrazionale ma umanamente potente, di un’effettiva comunione tra questo nostro mondo di carne e un altro mondo di spirito, impalpabile eppure vivo, presente.



Mosso da queste considerazioni, e da quanto ogni anno la retorica commerciale, ma anche cattolica, afferma sulla tradizione nordica di Halloween, mi sono dovuto chiedere più volte – anche come professore di Storia delle religioni – che senso avesse questa sosta che, nel cuore dell’autunno, coinvolge milioni di persone e rende i nostri cimiteri, e le nostre stesse Messe, mete silenziose di un compunto pellegrinaggio. La prima cosa che mi viene da pensare è che tutto questo brulicare di sospiri e di silenzi, attorno alle tombe dei nostri cari, altro non sia che il manifestarsi del desiderio ultimo di Infinito che ci abita, del bisogno di amare che ci spinge sempre al di là di ciò che siamo e di ciò che vorremmo essere. È come se, in questo giorno di memoria, questo desiderio si prendesse la sua rivincita e dicesse: “Nemmeno la morte mi può fermare, nemmeno la morte mi può spegnere perché Io – il Cuore – non posso smettere di amare”.



L’affermazione di un amore che non conosce confini, nemmeno quelli biologici della nostra esistenza, si accompagna ad un’intima consapevolezza che abita ognuno di noi: ciascuno, infatti, sa di provenire da una storia, una trama di volti e di gesti a cui deve gran parte del proprio essere, e alla quale sente la necessita di rivolgersi con rispetto e gratitudine. Ogni uomo è portatore di Infinito; ogni uomo nasce con un debito di amore verso chi lo ha preceduto e con cui le viscere della propria vicenda terrena si sono intrecciate fino a diventarne naturale prolungamento, come un erede che sa di esserne responsabile. Affermare questo, e saldare il nostro debito con la storia, ci porta ogni anno a farci pellegrini tra i volti di sbiadite fotografie e di lapidi dedicate a chi non c’è più, consapevoli che non basta compiere questo gesto una sola volta, ma che ogni anno – per essere davvero autentico – ha bisogno del proprio “bagno di memoria”.



Eppure, benché tutto ciò sia profondo e suggestivo, non trovo in queste dinamiche qualcosa per cui è necessario che si scomodi Gesù Cristo. Certamente Egli è il Dio dei vivi e non dei morti, Egli permette di dare senso a questo nostro pellegrinare, affidando alla Sua Misericordia il silenzio dell’oltretomba e la libertà della nostra vita presente, certamente la Sua Resurrezione ci consegna la morte come un mistero provvisorio, breve pausa nella vita senza fine, ma – lo ripeto – tutto questo non giustifica il Suo coinvolgimento in giornate così antropologicamente radicate.

Non lo dico da miscredente, lo dico constatando, guardando: il nostro popolo, infatti, sembra progressivamente smarrire il valore religioso del 2 novembre immergendolo in una sorta di festa laica, profonda e commovente, del ricordo, del debito, della gratitudine, dove Gesù Cristo non è altro che “una delle ciliegine” sulla torta. È facile, anche per noi preti, cedere all’onda emotiva e affettiva che in questi giorni avvolge le nostre celebrazioni, è facile fermarsi al rispetto per tutto quello che ho provato a descrivere poc’anzi rinunciando, in definitiva, ad annunciare il Vangelo.

Se il 2 novembre fosse solo ciò che fino ad ora abbiamo detto, esso certamente testimonierebbe l’estremo vigore di un desiderio Infinito e di un’intima gratitudine, ma – ancor più – apparirebbe come l’ultima affermazione titanica di un uomo ostaggio del proprio passato. Il ricordo, infatti, vissuto nei termini accennati, altro non è che un carceriere che tiene in ostaggio il nostro spirito, spingendoci ad affermare che ciascuno di noi ha nel passato un amore che il presente non gli può più dare. È questo il grande inganno laico della “festa della memoria”: mentre afferma il nostro sterminato bisogno d’amore, e la nostra autentica riconoscenza per chi ci ha preceduto, essa ci condanna a guardare al passato come a qualcosa che non tornerà più, come ad un’esperienza di amore impossibile nel presente. Con la morte, insomma, se ne sarebbe andata per sempre la nostra stessa possibilità di amare e l’amore – quello autentico e vero – sarebbe qualcosa di mitico, vissuto in un rapporto che oggi non si può ripetere.

L’annuncio cristiano spezza tutte queste catene, le catene del ricordo e del passato: è Gesù Colui che ci dona l’amore di cui abbiamo bisogno, era Gesù Colui che ci amava nei volti e nei gesti di chi è partito per il Cielo, ed è Gesù che – Risorto – ancora oggi rende possibile questo amore. Per i cristiani questi non sono solo giorni di “ricordo”, di affermazione invincibile della propria natura infinita e di ferma riconoscenza, questi sono giorni di “memoria”, ossia di consapevolezza piena che i volti che ci hanno preceduto ci hanno introdotto in un Amore più grande dei loro occhi e delle loro mani, più forte delle loro parole e dei loro gesti: ci hanno introdotto nell’Amore di Cristo.

Cristo restituisce al nostro ricordo tutto lo spazio del Presente: è nel presente che noi dobbiamo guardare per sperimentare di nuovo l’Amore, non in un passato mitico di cui molte volte le nostre vite sono in barbaro ostaggio.

Il cristianesimo, in un mondo che demanda sempre al futuro la realizzazione di sé, e al passato la pienezza dell’Amore, ci sfida e ci provoca restituendoci il presente come spazio della nostra libertà, come luogo in cui – ancora oggi – è possibile e vivibile il Mistero dell’Amore. È questa la Memoria cristiana: impegno col Presente per scoprire, tra le pieghe del nostro quotidiano, quel Bene che il nostro cuore attende e che la morte non ci ha portato via. Essa, infatti, ci ha costretto paradossalmente a trovare la Sorgente di quel Bene per cogliere nei tratti di chi ci ha preceduto l’inizio della Festa, quella che Dio ha pensato per ogni presente della nostra vita.