La storia di Oliviero Biancato non è da prima pagina, ma è una di quelle vicende che raccontano un clima e misurano la temperatura di un sistema. I fatti sono purtroppo molto semplici: Biancato fu licenziato dall’azienda dove lavorava come metalmeccanico per aver superato il limite legale di giorni di malattia concessi dal contratto nazionale. Un licenziamento giusto, quindi. Peccato che l’uomo si fosse assentato più del permesso perché in cura oncologica a causa di un tumore che ieri lo ha portato via definitivamente. 



Non è un dettaglio di secondaria importanza: si tratta di un particolare che apre questioni centrali per il nostro tempo. Infatti la depressione successiva al licenziamento dell’uomo ci fa capire che il lavoro fa parte integrante della dignità di una persona. Non si lavora solo per guadagnare, si lavora per esprimere se stessi, per compiersi. In un’epoca in cui il compimento umano è quasi del tutto affidato al piano affettivo, la vicenda Biancato ci ricorda che l’uomo è fatto per il rapporto con la realtà e che il rapporto stesso con la vita è terapeutico. 



La nostra consistenza umana, infatti, non si gioca sul piano emotivo o intellettuale, ma solo e sempre sul piano relazionale. Siamo uomini in quanto siamo capaci di entrare in relazione autentica con le cose e con le persone, incidendo sulla loro stessa storia. Ma Biancato mette a nudo pure il limite dell’economia capitalista, che non ha di mira la persona e la sua promozione, ma l’utile e il profitto. 

Il silenzio assordante della famiglia socialdemocratica su questi episodi fa cogliere il totale scollamento dalla realtà di una classe politica che persegue il raggiungimento del potere come obiettivo invece dell’influenza fondamentale sui processi storici e sociali. L’aver creduto che la politica esistesse per conquistare il governo del paese è la grave malattia della seconda Repubblica che, ancora oggi, fa soffrire la destra e tiene in ostaggio la sinistra. Scompare così la necessità di una profonda riflessione sul lavoro, sui diritti dei lavoratori e sul ruolo della comunità civile nell’indirizzare le imprese verso la loro natura, che non è il profitto ma lo sviluppo. 



Il progresso non si misura dal guadagno, ma dalla capacità che un’azienda ha di incidere nel proprio settore avviando a maturazione intuizioni e processi che possano risultare profetici per la società stessa. Oliviero Biancato è un nome che riapre tutte queste riflessioni, ma che – soprattutto – ci spinge a chiederci “cosa ci stiamo a fare al mondo”. Lo smarrimento che assale molti, dinnanzi al dolore piuttosto che alla morte, ci fa capire quanto siamo lontani – ancora – da una posizione di vera responsabilità verso noi stessi e verso il futuro dei nostri figli. 

Purtroppo il tempo che ci è rimasto per svegliarci è davvero poco.