Ricki è un bambino albanese di dieci anni, fuggito con la sua famiglia in un paesino dell’Appennino ligure. Egli non ha un suo credo: vive come gran parte del suo popolo senza una tradizione, senza una scrittura, senza un magistero. Non si allontana mai dalle dure colline liguri e raramente ha occasione di vedere luoghi per lui enormi, come Chiavari, o giganteschi, come Genova.
Eppure Ricki, in questi villaggi di campagna, ha sentito parlare di Gesù. Giocando con i suoi compagni, i dieci bimbi della policlasse elementare del paese, o vedendo la gente che alla domenica si incontra e va a Messa. Un angelo del paese ha preso a parlargliene da quando, nel silenzio più completo, ha cominciato ad occuparsi di lui e della sua famiglia, aprendo le porte della propria casa per alleggerire le spalle di mamma e papà che – con altri quattro figli – proprio non riescono a sfamare tutti quanti. Così anche lui ha cominciato ad entrare in Chiesa e, proprio adesso che si stava affezionando a quel signore che tutte le domeniche gli parlava di Gesù, il Vescovo gli ha giocato un brutto scherzo, spostando il suo “don” ad un altro incarico e inviando nel paesello un prete grossissimo, uno che non sa neppure giocare a calcio.
Ricki, infatti, è un mio parrocchiano e domenica, mentre mi toglievo i paramenti, ha sconvolto la mia vita. Alla fine della Messa si avvicina timidissimo e mi chiede se è vero, come ha sentito in paese, che sono stato a Roma. Io, sorpreso, gli dico di sì, che ho vissuto a Roma più di tre anni per studiare. Dopo un istante di silenzio Ricki cala l’asso: “Hai mai visto il Papa?”. A questo punto, molto sorpreso, gli parlo di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI e gli spiego che desidero tantissimo andare a conoscere papa Francesco.
Finito di parlare Ricki è muto, quasi assente. In dieci secondi comincia a piangere, i suoi occhi sono pieni di lacrime. Profondamente scosso da tutto questo, mi avvicino e gli chiedo perché sta piangendo. Lui singhiozza e mi dice: “Andare a Roma e vedere il Papa deve essere bellissimo. Perchè il Papa è Gesù qua sulla terra”. La mia reazione è immediata: “Allontanati da me – penso – perchè sono un peccatore”. Seguono istanti interminabili in cui anch’io, lo ammetto, mi commuovo fino alle lacrime. Sono passati parecchi mesi da quando papa Francesco ci guida. In tanti ne hanno parlato e ne parlano, in molti mi chiedono che cosa ne penso come prete, come teologo, come uomo. Eppure solo Ricki mi ha ferito. Perché lui un giudizio sul Papa ce l’ha già, lui un’autorità in materia già la segue: è la sua esperienza.
Ciascuno di noi, in effetti, mai come davanti al Papa ha mostrato quale fosse il suo punto di paragone, il suo guru: il capo della comunità, il prete, l’amico di una vita, la propria cultura, la propria mentalità. In pochi hanno giudicato Francesco a partire dalla loro esperienza, dalla scoperta che avevano fatto del Papa come “vicario di Cristo”. Noi, non di rado, continuiamo a guardare Francesco solo a partire da quello che sappiamo già o che abbiamo già capito. Insomma: noi il papa spesso lo spieghiamo, lo interpretiamo, ma non lo seguiamo. Cerchiamo semplicemente di ridurlo a qualcosa di accessibile e di simpatico, qualcosa che non dia fastidio.
Chi si rende conto che Bergoglio non si presta ad un’operazione del genere, allora lo riveste dei panni del nemico, del diverso, del lontano, consegnandolo ad un ruolo e a delle responsabilità che niente hanno a che fare col compito reale del Papa: guidare la Chiesa sotto lo sguardo di Gesù. Ricki non lo ha fatto. Eppure lui non ha mai letto la Lumen Gentium o la Donum Veritatis, non ha mai aperto un Vangelo o letto un libro sacro e neppure è cresciuto fra ferventi cristiani: egli ha semplicemente incontrato Gesù e ha reso quell’esperienza − quel contraccolpo − l’autorità della propria vita. La grande rivoluzione del cristianesimo è quella di aver consegnato il giudizio ultimo su Dio e sulla vita al cuore di ogni uomo. In questo modo Cristo ha ridestato in noi tutta la capacità che abbiamo di giudicare, di riconoscere e di seguire il bene della nostra vita. Dio non si è affidato all’autorità di un libro, nè si è messo in mano ad una casta di sacerdoti: Egli si è offerto alla coscienza di ogni uomo, rendendo la coscienza il luogo decisivo per la fede.
Nell’Adversus Praxean Tertulliano esprime tutto questo con una frase che rimane nella storia come il frutto più potente, anarchico e sovversivo dell’esperienza cristiana: “Se tu mi parlassi di un Dio che non fosse il mio io me ne accorgerei”. Ecco chi è l’uomo: uno che ha la capacità di riconoscere Dio. Di fronte ai problemi della vita, di fronte alle grandi scelte, noi siamo capaci di riconoscere e di seguire Dio. Non abbiamo bisogno di altro se non della Chiesa che, con la sua instancabile educazione − fatta di gesti e parole − proprio come Gesù allarga continuamente la nostra misura e purifica il nostro sguardo.
Nell’ora del dolore non c’è bisogno di interpreti o di guide spirituali, ma di sacramenti e di ascolto della Scrittura che − nella Santa Assemblea − diventa Parola di Dio. In ogni circostanza noi abbiamo già tutto cò di cui abbiamo bisogno. Non lo dico io, lo dice Ricki, il non battezzato, lo straniero che − proprio come la Samaritana − ha solo incontrato Gesù. E per questo sa meglio di chiunque altro dove guardare, come guardare e chi guardare.
Un cristianesimo vissuto così crea certamente molti disoccupati: sono quanti, nel tempo, hanno surrettiziamente sostituito all’esperienza i loro consigli, la loro cultura, il loro parere e che oggi, di fronte al Papa che riapre la partita, si sentono smarriti, inficiati nel loro potere di gestire e di interpretare. Sono loro la casta che blocca il nostro paese, sono loro − gli intellettuali della Tradizione e della Parola − che tengono in ostaggio la Chiesa italiana.
Eppure Ricki gli è sfuggito. Questo è stato il loro errore più grave: pensare che Dio avrebbe smesso di suscitare dei Santi solo perché loro dovevano elaborare una strategia di conservazione o di rinnovamento davanti “alle sfide del nostro tempo”. Dio non lo ha fatto. E, come il fruttivendolo descritto da Havel, adesso è troppo tardi: il potere dei senza potere è lì, in tutta la sua bellezza, a guardare con uno sguardo insopportabile (ai sapienti) il tempo e coloro che tenevano in ostaggio il Corpo di Cristo. Ci vorranno forse anni, forse tempi ancora più lunghi. Ma la Chiesa è già stata riformata. Da Dio, da Ricki, da Papa Francesco. E quel che conta è che tutto è stato fatto secondo il più classico dei metodi di Dio: scommettendo sul cuore e sull’esperienza dell’ultimo pescatore della Galilea, dell’ultimo bambino dell’Appennino, sul respiro e sul desiderio di ognuno di noi. Adesso, molto semplicemente, tocca a noi decidere da che parte stare.