A cosa si deve il dietrofront di Napolitano? Chiamato a testimoniare al processo di Palermo sulla presunta trattativa Stato-mafia, pareva, inizialmente, disponibile a farsi ascoltare. Avrebbe dovuto lasciarsi interrogare sul contenuto della lettera che Loris D’Ambrosio, suo consulente giuridico morto  il 26 luglio del 2012, gli aveva inviato il 18 giugno dello stesso anno. Nella missiva, tra le altre cose, riferendosi a episodi del periodo 1989-1993, aveva espresso il «timore di essere stato considerato un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». Ebbene, alla fine, Napolitano, con un’altra lettera, ha scritto alla Corte d’Assise di Palermo che non intende essere interpellato di persona: «non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di potere fare se davvero ne avessi da riferire».  Poi, ha aggiunto: «L’essenziale è il non avere io in alcun modo ricevuto dal dottor D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio o specificazione circa le ”ipotesi”, solo “ipotesi” da lui enucleate». Abbiamo chiesto una lettura della vicenda a Massimo Teodori, docente di Storia americana nell’Università di Perugia.



Cosa ne pensa del cambio di strategia di Napolitano?

Il capo dello Stato, scrisse una prima lettera, in cui fece alcune osservazioni di carattere procedurale circa i limiti e le modalità con cui un presidente della Repubblica può deporre. Nella seconda e ultima lettera, quella di cui stiamo parlando, si è soffermato maggiormente sulla parte contenutistica, ovvero sull’assenza di informazioni relative alla lettera di D’Ambrosio da lui ricevuta. Sebbene qualcuno possa intravedere una contraddizione tra le due missive, in realtà, la seconda sviluppa coerentemente il ragionamento presente nella prima.



Qual è il messaggio del presidente?

Anzitutto, ha voluto precisare, come del resto ha scritto esplicitamente, che la sua presenza sarebbe del tutto inutile e che, di conseguenza, si sarebbe conferita eccessiva solennità ad un gesto che non ne merita affatto. Credo, inoltre, che abbia voluto lanciare un chiaro segnale alla procura di Palermo.

Quale?

La Procura non deve travalicare i propri limiti; ovvero, non deve attribuire al processo di Palermo – come d’altra parte sta facendo – una funzione indispensabile per la storia della Repubblica. Esattamente, come accadde per il processo Andreotti.



Cosa intende?

Beh, ogni volta che le procure si imbarcano in procedimenti del genere, lo fanno perché vogliono reinterpretare la storia del Paese. Basti pensare che il titolo dato all’istruttoria fu: “la vera storia d’Italia”. Si trattò, infatti, di un processo che esondava abbondantemente rispetto all’individuazione e alla circoscrizione dei reati, imbastendo dei teoremi. Tornando al processo sulla presunta trattativa, mi pare sia stato costruito sulle sabbie mobili. Si risolverà in nulla. E si produrrà un effetto paradossale: sarà distolta l’attenzione dai reati che, magari, sono effettivamente stati compiuti, ed essi ne risulteranno legittimati. 

 

Napolitano  fece presente che le intercettazioni che lo riguardavano avevano leso le sue prerogative, e che andassero distrutte per non inficiare le facoltà del suo successore. Anche in questo caso si è mosso con uno spirito analogo? 

Indubbiamente. In tutti i suoi atti, e nello stile della sua presidenza, c’è il costante tentativo di circoscrivere gli ambiti in cui la politica e il sistema giudiziario possono legittimamente operare. La lettera rappresenta, in tal senso, un importante precedente.

 

E se si fosse lasciato interrogare?

In futuro, probabilmente, qualunque pm si sarebbe potuto sentire in diritto di interpellare il capo dello Stato come e quando voleva.  La sua iniziativa, quindi, ha avuto l’obiettivo di riaffermare le garanzie di cui, costituzionalmente, è coperto il presidente. D’altra parte, gli stessi pm sapevano benissimo che la testimonianza di Napolitano sarebbe stata del tutto inutile. Tuttavia, la spettacolarizzazione di un processo dipende da chi si chiama a testimoniare.

 

(Paolo Nessi)