Non è insolito, ultimamente, ascoltare paragoni tra la morte di Stefano Cucchi e l’interessamento del ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri per la scarcerazione di Giulia Ligresti. La Cancellieri, in attesa di riferire in Aula, si è difesa affermando che, date le condizioni di salute della Ligresti, era suo compito intervenire, e facendo presente che si è comportata in maniera analoga in oltre un centinaio di casi; chi vorrebbe le sue immediate dimissioni, si è chiesto se nel caso di Cucchi si sarebbe comportata allo stesso modo. Forse, se il giovane (deceduto il 22 ottobre 2009 durante la custodia cautelare) avesse avuto un nome più prestigioso, non sarebbe morto? Sulla vicenda, è intervenuta proprio la sorella, Ilaria Cucchi.
Come giudica il gesto del ministro?
Va detto che se la Ligresti è malata di anoressia, allora non può stare in prigione. E non per il nome che porta. Evidentemente, le sue condizioni di salute non sono compatibili con quelle del sistema carcerario.
Se non avesse avuto un cognome così importante, il ministro della Giustizia si sarebbe comunque interessato della sua vicenda?
Guardi, io posso solo dirle che ho incontrato la Cancellieri in due occasioni. Una volta, assieme ad una delegazione di familiari delle vittime del sistema carcerario meno note alla cronaca. In entrambe, ha manifestato sincero interesse per le nostre vicende, anche sul piano emotivo. Mi sento di dire che se fosse stata lei, nel 2009, il ministro della Giustizia, e se fosse venuta a conoscenza di quello che stava capitando a mio fratello, forse – e ribadisco: forse – Stefano non sarebbe morto.
Può ricostruirci la cause della sua morte?
Mio fratello è stato arrestato nel 2009 perché trovato in possesso di sostanze stupefacenti. La mattina successiva è stato processato per direttissima. In precedenza, come abbiamo appreso dagli atti dell’indagine, ha subito un pestaggio nei sotterranei del tribunale. Durante l’udienza nessuno si è reso conto delle sue condizioni, e in carcere è iniziato il suo calvario. Le condizioni dovute al pestaggio sono peggiorate. Il giorno successivo è stato ricoverato, dopo una procedura del tutto anomala, in una struttura detentiva (e non in un ospedale civile) dove poteva essere tenuto lontano da occhi e orecchie indiscrete. Il suo calvario è proseguito e, nonostante i falliti tentativi di mettersi in contatto con la sua famiglia e i suoi avvocati, dopo sei giorni, tra dolori atroci, si è spento.
Lei è certa che abbia subito il pestaggio?
I medici sono stati condannati per omicidio colposo. La versione ufficiale è che Stefano sia morto per malnutrizione. La Corte d’Assise, assolvendo gli agenti dalle accuse, ha affermato che il pestaggio c’è stato, ma che non aveva gli elementi per poter dire che erano stati proprio loro. Nonostante le testimonianze di chi, poco prima dell’udienza di convalida, ha assistito proprio a quel pestaggio. Si tratta di una vicenda nella quale mi sono sentita inerme e che mi ha portato a riflettere sul fatto che una persona comune non dispone degli strumenti per potersi difendere da queste situazioni. Per questo, credo che l’episodio di questi giorni non possa limitarsi alle polemiche contro il ministro. Deve essere, casomai, l’occasione per ribadire la necessità di porre rimedio alla situazione disumana delle nostre prigioni.
Come?
Sensibilizzando, anzitutto, chi ci governa a eliminare leggi come le Bossi-Fini, che riempiono le nostre prigioni di derelitti umani. Da troppi anni si rimanda la questione. E, mentre stiamo parlando, la gente in carcere continua a morire. Eppure, l’attenzione continua a essere spostata altrove. In questo caso, sulla Ligresti, che rappresenta evidentemente un falso problema.
Come reagisce ai continui accostamenti tra il caso Ligresti e la vicenda di suo fratello?
Semplicemente, mi ha fatto riflettere su quanto questi temi siano distanti dalla sensibilità della maggior parte delle persone. Io stessa, prima della morte di mio fratello, ho sentito parlare per anni dell’emergenza carceri considerandola una questione che, in fondo, non mi riguardava.
(Paolo Nessi)