La giornata della grande Colletta promossa dal Banco Alimentare è diventata, con gli anni, un appuntamento imprescindibile per tutto il nostro Paese. I mezzi di comunicazione ce ne danno puntualmente il resoconto presentando numeri, percentuali e commenti.
Ma la Colletta non è soltanto un atto di generosità, un modo semplicissimo per compiere un’azione utile, un aiuto concreto a tante situazioni di bisogno, per le quali spesso non è così necessario allontanarsi tanto da casa propria, perché il bisogno è diffuso come la globalizzazione, e le periferie di cui ci parla sempre il Papa sono davvero vicine a noi, tra noi, fuori e dentro di noi.
La Colletta è anche l’emergere di una grande narrazione, solitamente silenziata, che abbraccia tutte le componenti di questa giornata, dai beneficiari ai donatori ai volontari. Sono persone che s’incontrano, sono racconti che si mischiano, sono rapporti che nascono tra persone che, forse, per altra via non s’incontrerebbero mai.
Non sono molte le occasioni di incontro nelle nostre città. Abbondano le iniziative, questo sì, e spesso sono iniziative bellissime: tuttavia si tratta perlopiù di eventi nei quali converge sempre e soltanto un certo tipo di persone. Ogni evento ha i suoi destinatari, il suo target: negozio, ristorante, spettacolo. Il pubblico viene sempre selezionato all’origine.
La Colletta è uno di quei rari eventi capaci non solo di invertire questa rotta, ma di porre tale inversione al centro dell’attenzione. Anno dopo anno, un immenso romanzo collettivo esce alla luce, rivelando – attraverso un gesto semplicissimo – una parte essenziale dell’Italia e della sua anima, che difficilmente i media riescono a catturare.
Nei quotidiani resoconti sulla crisi, sulla disoccupazione giovanile, sulle difficoltà della piccole e media impresa e così via, c’è un pessimismo diffuso che spesso nasce dalla difficoltà a intercettare il racconto giusto, l’immagine giusta. Ci si accontenta dei luoghi comuni, o di un’elaborazione di dati reali che non sono mai, però, paragonabili al racconto vivo delle persone.
Nella vita c’è di più: più delle nostre analisi, della nostra elaborazione dei dati, ma anche più della nostra ignoranza, che ci fa scuotere la testa sconsolati e dire: non ce la faremo mai.
Questo “di più” – scusatemi l’accento enfatico – è l’uomo, l’uomo concreto, in carne e ossa, che lavora, dona, soffre, offre. Mi è capitato più di una volta di veder lavorare, allo stesso banchetto di raccolta, donatori (magari incontrati cinque minuti prima) e destinatari degli alimenti.
Tutti noi abbiamo a che fare con la crisi, e tutti sappiamo che essa è, purtroppo, reale. Tuttavia finché sono presenti due fattori, possiamo dire che la crisi non ha ancora vinto, e che forse non vincerà.
Il primo di questi fattori è l’amore e la fiducia nel proprio lavoro: chi lavora bene e crede davvero nella bontà di quello che fa avrà molte più possibilità di condurre in porto la nave della propria azienda, o della propria famiglia, o qualsiasi altro progetto sulla propria vita. Lo dimostrano tante novità nate o cresciute nella crisi, come (per stare a Milano, ma ogni città può metterci i propri esempi), i nuovi quartieri di Porta Nuova o di City Life, il Salone del Mobile, o quella bellissima iniziativa low-cost che è Bookcity.
Ma il secondo fattore è la solidarietà. Il grande racconto del nostro tempo, il più veritiero, nasce molto di più dalla diffusa pratica della solidarietà (di cui la Colletta alimentare è la grande vetrina) che dalle notizie (pur vere) che rattristano le pagine dei giornali.
“Che c’è d’allegro in questo maledetto paese?” grida − feroce ma col presentimento di un’esultanza vicina − l’Innominato nella più bella battuta di tutta la nostra letteratura. Per raccontare l’Italia occorre rispondere a questa domanda, e la Colletta lascia intravedere, anno dopo anno, che questa risposta esiste ed è presente.