Il presidente Napolitano nel suo appello alle Camere ne era ben cosciente. La situazione di sofferenza cronica delle carceri italiane non si risolve con provvedimenti straordinari. Per questo, oltre ad amnistia e indulto, ha delineato una serie di linee d’azione complementari e più efficaci nel lungo periodo. Proprio a questo fine può essere utile guardare al di fuori di casa nostra. Imparare dalle esperienze altrui può essere lo spunto per contribuire ad affrontare alla radice i problemi delle carceri italiane.
Ecco perché è particolarmente interessante la missione in Brasile che si è svolta dal 19 al 26 ottobre per valutare la possibilità di integrare due esperienze di successo: le lavorazioni promosse dalle cooperative sociali, che lavorano nelle carceri italiane, e la gestione “libera” di carceri delle brasiliane Apac, Associazioni per la Protezione e l’Assistenza ai Condannati. Un’integrazione alla quale il governo brasiliano guarda con molto interesse. Il progetto infatti nasce su richiesta ufficiale del Depen, Dipartimento Penitenziario del Brasile, al Programma EUROsociAL, strumento dell’Unione Europea che ha l’obiettivo di condividere buone pratiche tra Europa ed America Latina per migliorare politiche che incidono sulla coesione sociale. All’origine dell’incontro tra italiani e brasiliani c’è Avsi, un ong italiana che opera da 40 anni in Brasile e che da alcuni anni segue da vicino il percorso di formazione e riqualificazione dei dirigenti delle Apac. Proprio Avsi ha egregiamente organizzato e guidato la missione italiana.
Le Apac nascono quarant’anni fa nello stato brasiliano di Minas Gerais. Anche se a prima vista sembrano case di reclusione tradizionali, è nell’organizzazione interna che risiede la grande novità. Il metodo Apac consiste nel responsabilizzare il detenuto e nell’umanizzare la pena attraverso il coinvolgimento di organizzazioni della società civile. Per la Costituzione brasiliana è la società che deve occuparsi dei propri detenuti. Proprio grazie a questo dettato costituzionale le Apac sono state riconosciute dal Brasile come circuiti differenziati, centri di detenzione alternativi al carcere e si sono sviluppate in vari stati brasiliani.
Potrebbero essere considerate un esempio di sussidiarietà applicata al mondo del carcere. Che fa risparmiare lo Stato. I costi delle Apac ammontano a un terzo rispetto ai costi dei centri comuni e la recidiva si attesta a circa il 10 per cento rispetto al 70/90 per cento registrato nel sistema penitenziario ordinario. Nelle singole Apac inoltre sono ospitati circa duecento detenuti. Le celle per gli standard europei sono sovraffollate ma con una differenza sostanziale: i recuperandi (non li chiamano detenuti) vi passano non più di otto ore al giorno. Il resto della giornata è dedicato ad attività di studio, formazione, incontro con familiari, psicologi, volontari e a lavori artigianali come lavoro terapia.
Proprio sul tema del lavoro il governo brasiliano ha richiesto l’aiuto europeo, guardando all’esperienza di tante imprese e cooperative sociali come ad esempio Officina Giotto nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova. I brasiliani sono convinti che potenziando il componente lavoro nelle Apac i risultati sarebbero ancora migliori, potrebbero essere estesi a livello federale e, perché no, mondiale. L’interesse è reciproco anche da parte europea, come ha dimostrato la visita ad una Apac nello scorso maggio di una delegazione formata da tutti gli ambasciatori dell’Unione Europea e la richiesta di presentare il caso Apac nell’ambito degli European Development days il prossimo 26 novembre a Bruxelles.
Ecco perché la collaborazione tra Italia e Brasile è così importante, nonostante stiamo parlando di qualche migliaio di detenuti coinvolti (i reclusi nelle carceri brasiliane sfiorano quota 550mila). Prossima puntata: la visita di una delegazione di imprenditori, magistrati e funzionari del DePen brasiliano al carcere di Padova e poi a Roma per un convegno sul futuro del carcere. Più società e più lavoro: potrebbe essere questa la ricetta giusta per i mali del carcere, di qua e di là dell’oceano?