In occasione del 120° anniversario della nascita di Herman Rorschach, festeggiato anche da Google con un homepage dedicata alle sue tavole di macchie, abbiamo contattato il noto psichiatra Alessandro Meluzzi per farci spiegare bene in cosa consiste questo test e il suo grado di affidabilità, cercando di capire inoltre se il test di Rorschach rientri o meno nelle perizie utilizzate dai tribunali italiani per giudicare gli imputati. “Iniziamo col dire che il test di Rorschach si basa su macchie simmetriche dovute a una goccia d’inchiostro schiacciata su un foglio piegato in due”. “È il prototipo dei tret proiettivi, nei quali si sottopone un soggetto a uno stimolo generico (nel senso che può essere plasmato dalla percezione di chi lo riceve. Mi spiego: quante volte ci è successo di guardare una nuvola e di dargli, a seconda della forma, l’etichetta di un oggetto riconoscibile. Ecco, questo meccanismo si chiama pareidolia”. E ha proseguito: “la nostra percezione non è solo un fenomeno passivo, bensì anche attivo e costruttivo per cui la nostra memoria e sensiblità non si limitano a ricevere la realtà come un fatto obbiettivo, ma la costruiscono. Questo processo psicologico di chiama illusione, come quando aspettiamo qualcuno alla stazione tendiamo a riconoscerlo in tante altre persone che ci vengono incontro”. Ma qual è l’aspetto interessante del test, o meglio a cosa serve in concreto? “Si possono dedurre, dopo un’accurata e lunga standardizzazione degli aspetti significativi della personalità, del carattere o di una patologia dell’individuo sottoposto al test. Ma ammonisce: “la cosa migliore per uno psichiatra, per ragioni di obbiettività, è quello di fare sottoporre il periziato ad un test fatto e somministrato da uno psicologo che non abbia una conoscenza approfondita del soggetto per evitare interferenze tra la lettura del test e la lettura clinica del soggetto. Meluzzi ha poi sottolineato come il test in questione debba sempre essere inserito nel quadro di una valutazione clinica che è sempre primaria. Infine, per quanto concerne la possibilità che il test di Rorschach sia stato adottato in qualche caso di cronaca attuale – vengono in mente su tutti il caso di Amanda Knox e, più indietro, di Anna Maria Franzoni – Meluzzi ci dice che: “buona parte dei soggetti che sono stati oggetto di casi di cronaca e che sono stati reclusi con l’accusa di omicidio, è stata sicuramente sottoposta, all’interno di una più ampia perizia, al test delle tavolo a macchie”, sottolineando però come non sia una prova determinante.
Il test di Rorschach è costituito da un insieme di tavole (o macchie) volte ad indagare la personalità di chi le “legge”: si tratta di un test psicologico proiettivo Il test è costituito da 10 tavole, ciascuna delle quali riporta una macchia d’inchiostro simmetrica; per la precisione vi sono 5 macchie monocromatiche, 3 colorate e 2 bicolori. Le tavole vengono così sottoposte, una alla volta, al soggetto senza alcun limite di tempo; al paziente viene chiesto di esprimere tutto ciò che vede sulla tavola. Partiamo subito con il dire che non esistono risposte giuste o sbagliate, ma dall’interpretazione delle risposte date per ciascuna macchia è possibile delineare un profilo attitudinale e di personalità che riguarda la sfera dell’intelletto, degli affetti e della vita sociale, identificando eventuali problematiche del soggetto in merito. Si tratta di un test che fornisce un ritratto istantaneo della psiche del soggetto, relativo proprio al momento in cui viene effettuato. Inoltre, l’interpretazione del test non si basa solamente sul contenuto della risposta, ovvero che cosa vede la persona in quella determinata macchia d’inchiostro, bensì vengono prese in considerazioni un insieme di varianti quali il tempo impiegato per fornire la risposta, e se questa viene accompagnata da qualche particolare commento. Le risposte, il più delle volte, sono fornite sulla base dell’intera immagine o di un dettaglio particolare che colpisce, oppure anche dallo spazio bianco intorno o all’interno della macchia. La forma è la determinante più comune nel processo che porta alla formulazione dell’interpretazione ed è legata alla sfera dei processi intellettivi, mentre le risposte al colore forniscono spesso informazioni sulla vita emozionale.
In occasione del centoventinovesimo anniversario della nascita dello svizzero Hermann Rorschach, Google si trasforma per un giorno in psichiatra e ci permette di effettuare il celebre test “delle macchie”, quel metodo psicodiagnostico in cui il paziente deve interpretare una serie di dieci tavole coperte di macchie d’inchiostro. Nel doodle interattivo di oggi, infatti, vediamo uno psichiatra con bloc-notes in mano, intento a prendere appunti, mentre l’utente, con visuale in prima persona, stringe tra le mani una delle tavole con la macchia d’inchiostro sopra. Cliccandoci sopra, la macchia cambia permettendoci di interpretare tavole diverse, e il risultato (anche se non “psicanalizzato” da un esperto) è anche condivisibile sui vari social network (Facebook, Twitter e Google Plus) direttamente dalla home page di Google, magari per farsi quattro risate con gli amici e confrontare le varie risposte. In base alle ricerche di Rorschach, dall’interpretazione delle risposte date a ciascuna tavola è possibile delineare il profilo del paziente per attitudini e un profilo di personalità, analizzando la sfera dell’intelligenza, dell’affettività e del contatto sociale e tentare di isolare eventuali aspetti problematici del soggetto. Dopo un avvio in sordina e poco convincente, è ancora oggi un test molto utilizzato in ambito clinico.
Ma chi era l’uomo che pur avendo vissuto solamente 38 anni a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, è probabilmente lo psichiatra svizzero più famoso al mondo? Il suo nome, infatti, è associato al celebre metodo psicodiagnostico che si avvale di una serie di dieci tavole coperte di macchie d’inchiostro che il paziente deve interpretare. Come accennato, Hermann Rorschach è nato a Zurigo l’8 novembre 1884 (a quel tempo considerata la “capitale svizzera della psichiatria”) ed è morto a Herisau il 2 aprile 1922 a causa di una peritonite mal diagnosticata. Rorschach era fin da giovane appassionato sia di scienze naturali che di pittura, tanto che al termine delle scuole superiori rimase a lungo in dubbio sulla carriera da perseguire. Decise poi di muoversi in direzione della Medicina, laureandosi nel 1909 e specializzandosi successivamente in Psichiatria. Tra la Svizzera e l’Austria, dove si avvicina ai circoli psicoanalitici, inizia a sperimentare il metodo che lo renderà celebre, tentando di interpretare le differenti percezioni che soggetti diversi hanno davanti a macchie colorate, chiedendosi dunque se questo potesse derivare da differenti personalità o problematiche dei pazienti. Dopo aver analizzato circa trecento pazienti e cento soggetti di controllo, nel 1921 Rorschach scrisse il libro “Psychodiagnostik”, destinato a formare la base del test, ma morì l’anno successivo. Anche se era stato vicepresidente della “Società Svizzera di Psicoanalisi”, Rorschach incontrò numerose difficoltà per la pubblicazione del volume, e quando finalmente ci riuscì non godette neanche di molta attenzione. Una seconda edizione venne pubblicata nel 1932 da Walter Morgenthaler, mentre la prima traduzione in lingua inglese risale solamente al 1942 con il titolo “Psychodiagnostics: A Diagnostic Test Based on Perception”. Poi, nel corso del decennio successivo, molti psichiatri e psicoanalisti iniziarono a sperimentare l’uso delle sue macchie standardizzate in ambito psicodiagnostico, oggi conosciuto appunto come il Test di Rorschach.