Dalla Cina arriva una notizia decisamente singolare: la tv di Stato – in prima serata – fa raccontare ai condannati, reclusi nelle patrie galere, i loro misfatti e le pene a cui, per tali comportamenti, sono stati condannati a scontare. Lo scopo dell’iniziativa è culturale e civile: mostrare che il male viene punito e usare dei “rei” come deterrente dissuasore nei confronti di quanti possano essersi incamminati sulla medesima strada. Insomma, con una battuta si potrebbe affermare che – finalmente – al mondo c’è uno stato che educa i cittadini attraverso delle testimonianze.
La notizia è interessante perché mostra come l’unico collante che riesce a tenere unito un paese grande come la Cina sia la paura e il bisogno di giustizia. Davvero l’unità di cui sono capaci gli uomini sembra sorgere o dal metus hostilis di romana memoria o dalla sublimazione della violenza primordiale – generante ogni tipo di rappresaglia in nome della giustizia – in strutture politiche e sociali atte a contenerla e a incanalarla in forme di detenzione appropriate. Il potere, ogni potere, ha paura della libertà e – per questo – si impegna presso il popolo con furore affinché il male sia chiaramente individuabile e fortemente perseguibile, se non addirittura estinguibile.
Queste riflessioni mi venivano alla mente pensando al sacramento della confessione, alla forma di racconto personale del proprio male che la Chiesa chiede come condizione per ogni penitente. Papa Francesco, nel colloquio con Scalfari, ha riportato la questione del male all’origine, alla coscienza. Nessuno sa che cos’è il male. Ognuno sa qual è il proprio male. Il cuore dell’uomo, in quell’intimo sacrario che è la coscienza, è consapevole di che cosa può edificarlo e di che cosa può distruggerlo. I Padri della Chiesa, Ippolito in testa, parlavano di “capacità di epignosis” (riconoscimento) che ognuno di noi possiede in seno al giudizio su quelle piccole grandi cose che sono decisive per la vita. Tommaso, poi, definirà questa innata capacità come un’operazione immediata dell’intelletto, tecnicamente “sinderesi”.
Insomma, la Chiesa non è un potere che ha bisogno di identificare un male da combattere per sostenersi e per giustificarsi, la Chiesa è una vita restituita alla sua piena umanità dall’incontro con Cristo. La nostra coscienza, infatti, tende ad addormentarsi e a farsi anestetizzare, abdicando al compito di “sentinella dell’umano”, che il buon Dio le ha assegnato, in nome di una più semplice omologazione con la mentalità del potere dominante. Per questo la Presenza di Cristo è così rivoluzionaria: perché strappa l’uomo da tutti i suoi antecedenti e lo restituisce a se stesso “in grado di giudizio autonomo”.
Questo è lo scopo di ogni testimonianza cristiana: mostrare come il male, nessun male, può mai avere l’ultima parola sulla vita dell’uomo, riducendola ad un ostaggio del proprio passato o alla necessità di sostenersi su altro per “consistere” e costruire. Nessuno di noi racconta il proprio male al prete con la paura delle misure deterrenti o punitive di Dio: tutti entrano in confessionale con l’intima speranza che il proprio peccato non sia la parola definitiva alla luce della quale leggere e affrontare l’esistenza. Ognuno di noi è in grado di testimoniare non tanto il degrado del male, sempre più grande di quello che vediamo, ma la forza misericordiosa di Dio che non teme di attraversare nulla, pur di venirci a prendere e portare via con sé. Mai come questi mesi il potere e la misericordia, l’egemonia e la testimonianza, sono risultate essere le strade tra cui può e deve scegliere la Chiesa.
Dobbiamo smetterla con le nostre crociate contro tutto il male del mondo e uscire dall’ovile per recuperare la pecorella smarrita o la dracma perduta. Dobbiamo consegnare definitivamente alla storia una certa definizione di peccato come “offesa” alla nominalistica volontà del Creatore per recuperare la consapevolezza che ogni peccato apre lo spazio all’amore di Dio e che, quindi, chiamare un comportamento come “peccaminoso” non vuol dire escludere la persona dall’orizzonte della dignità e dell’onore ma – semplicemente – richiamare tutto il bisogno umano che in una data azione è implicato.
La Chiesa non sta nel mondo per difendersi, ma per amare. Le nostre assemblee, le nostre testimonianze, le nostre catechesi, non possono essere la versione periferica del primo canale della tv cinese: noi non siamo insieme per combattere il male, per tagliare l’orecchio al soldato che – ancora oggi – si avvicina biecamente a noi per arrestare Cristo. Noi siamo insieme per seguire il Maestro. Per testimoniare che il male non ci fa paura. Ci fa più paura la nostra giustizia. Quella che ha bisogno di storie esemplari per continuare a perpetrarsi. Quella che, di fronte a Dio – o a Papa Francesco -, teme solo di essere disturbata.