La protesta sta alla società come la febbre sta al corpo. È un sintomo che, quando si manifesta in modo così diffuso e persistente – come in questi giorni di Italia – non deve essere sottovalutato.

Da anni, in Italia procedono due processi, legati tra loro, ma anche dotati di una relativa autonomia.

Il primo è la recessione economica, che è sopraggiunta dopo un decennio di non crescita: gli italiani sono oggi più poveri rispetto a cinque anni fa. Un impoverimento che non si distribuisce però in modo omogeneo: come sempre succede in questi casi, alcuni pagano un prezzo più alto di altri. Il che scava nuove, dolorose fratture sociali.



Il secondo processo è la critica feroce, che arriva fino al disprezzo, per le istituzioni e la cosiddetta casta. Una critica che certo è stata una reazione a gravi irresponsabilità e inettitudini; ma che col tempo ha rafforzato sentimenti rancorosi nei confronti di un’intero sistema istituzionale.

Chi sono i gruppi che soffrono di più? Principalmente due. 



Il primo è quell’ampio e variegato mondo che va dal lavoro precario e instabile al lavoro autonomo fino alla piccola impresa. Quella parte della società italiana, cioè che è al di fuori del sistema delle garanzie. Il secondo gruppo – che si sovrappone al primo solo in parte – è costituito dai giovani sotto i 35 anni: la crisi è sproporzionatamente pagata da un’intera generazione, che, di fronte alla perdita del futuro, ora comincia a ribellarsi. 

E dato che tutti hanno legami famigliari, ecco che il disagio si allarga coinvolgendo più trasversalmente la gran parte della società italiana.



Chi protesta, sa cosa vuole? La risposta, in linea generale, è no. È piuttosto un grido di disperazione: non c’è la facciamo più e nessuno ci ascolta! È il senso di smarrimento a dominare. Non c’è da stupirsi: in condizioni diverse è quanto accade nei paesi avanzati (e non solo) ormai da più di dieci anni. Nelle società contemporanea la protesta si produce come un rumore sordo, in assenza – quasi in sostituzione – del conflitto sociale, che è finito con la fine delle classi: il malcontento, diffuso e sotterraneo, incapace di trovare sbocchi sociale e politico, scoppia improvvisamente per l’innesco di un fattore occasionale che lo accende. Quando ciò accade, la protesta autoorganizzata (anche grazie ai social network) si produce in una forma che assomiglia più ad una scarica di rabbia – che può facilmente portare alla violenza.

Lo abbiamo visto nelle periferie parigine e londinesi, nella Grecia e nella Spagna della crisi, e oggi in Italia.

La portata e le conseguenze di un tale fenomeno dipendono fondamentalmente dalla capacità di ascolto, contenimento, reazione da parte del contesto. Ed è qui che nascono le preoccupazioni per l’Italia.

Questi fenomeni tendono ad essere, per loro natura, di breve durata. È difficile che riescano a darsi un’organizzazione stabile, a definire degli obiettivi, a far emergere delle leadership. Ma a differenza di quanto è accaduto nella maggior parte dei casi citati − a parte  la Grecia − la situazione italiana è tale da non fare escludere un esito diverso.

Intanto, perché l’odio verso la casta e il disprezzo verso le istituzioni sono oggi così radicate da andare ben al di la dei confini della protesta. Sentimenti che si sommano allo scarso senso istituzionale che accomuna ceti popolari e pezzi delle élites. Anche in questo giorni, non sono mancate le voci di chi − nelle istituzioni e tre le cosiddette classi dirigenti − ha mandato messaggi a dir poco confusi, equivoci. E, in alcuni casi, del tutto sbagliati.

In secondo luogo, perché il sistema politico è nel mezzo di una profonda ristrutturazione, che apre varchi i cui sviluppi è difficile prevedere.

Da un lato, abbiamo partiti che siedono in parlamento che stanno cercando di cavalcare la protesta: esplicitamente Grillo − che ha provato a diventare il riferimento della gente scesa in piazza − in modo più felpato Forza Italia − i cui  esponenti di primo piano hanno in qualche modo accarezzato il movimento di protesta.

Dall’altro lato, abbiamo una sinistra che è oggi molto lontana dai ceti che protestano. La nuova segreteria certifica la trasformazione del Pd, che da molto tempo fatica a tenere i contatti con i ceti popolari del nostro paese. La vittoria del sindaco di Firenze − positiva nella misura in cui ha impresso un vento di cambiamento al sistema politico − ha ora il problema di diventare davvero un fattore di cambiamento. Così da  assorbire le ragioni della protesta. Se nei prossimi mesi le aspettative di cambiamento dovessero venire frustrate, ciò aprirebbe un enorme varco ad una ondata  di destra. Con esiti assai incerti.

Per questo, il presidente della Repubblica predica prudenza e invita i partiti della maggioranza a realizzare quelle riforme di cui il paese ha bisogno: l’Italia ha bisogno di cambiare passo. Adesso. Mettendo il bene comune prima delle ambizioni personali e degli interessi di parte.