Quando arriva il Natale è sempre così: ci trova impreparati. Impreparati per i regali da fare? Non solo. Anzi, se non ci fossero i regali da fare saremmo nudi come quel bambino, con l’anima nuda di fronte alle nostre contraddizioni, alle faccende irrisolte, soprattutto in famiglia, dove a Natale, per un verso o per l’altro, sei costretto…a guardare in faccia a chi vuoi bene o a chi hai avuto bene. Il Natale si piazza così davanti a ciascuno, come uno specchio: sugli anni, sul lavoro, sulle tensioni e le preoccupazioni. E allora decidi di mangiare e di bere, magari tanto, facendo di un pranzo un albero di Natale, pieno di cose luccicanti e anche inutili. Basta che passi il Natale, e anche in fretta. Si archivia così quel Gesù bambino che in un modo o nell’altro, ogni anno, si fa comunque presente: come una luce fioca o addirittura un lucignolo fumigante, alimentato da qualche barlume di umanità. Questo per dire quanto è comunque potente quella luce che è venuta nel mondo e che ha sconquassato ogni misura possibile, portando parole nuove come amicizia, dono, gratuità…e speranza. La prima speranza, del resto, è di non essere soli. Di non trovarsi mai soli, senza una speranza che colori un mattino. Ci si fa i doni a Natale, ma sempre per un paradigma del grande dono, in origine. Oggi si dona perché questa è la forma del Natale, così come il pranzo opulento. La forma ha preso il posto della sostanza, anche se cade sempre in quel giorno, dove il mondo si ferma…e il bambino ti interroga: che stai combinando della tua vita? Passate lo Champagne! E’ così: davanti alle grandi domande ci sono due modi per reagire: tenerle aperte, senza sapere che questa è la strada maestra per la conoscenza di una misura nuova, oppure rigettarle come un brutto sogno, come scrisse Sergio Zavoli in quel libro della mia gioventù, “Socialista di Dio”, dove al racconto di una visita in un monastero carico di letizia, concluse che era meglio non farsi certe domande. Ma che peccato, pensai, quando lessi quel passo di un mostro sacro del giornalismo, che poi conobbi quando stavo per diventare anch’io giornalista e lui ci insegnava proprio l’arte dell’ intervista e delle domande. Per gli altri, ma non per sé.



A Natale, come una magia, in ogni cantone d’Italia c’è sotto l’albero un dolce differente. A cominciare dal Nord, dove vive la tradizione delle paste lievitate e del panettone che nasce a Milano, per poi declinarsi in varianti locali: da quella genovese a quella bolognese, fino al celebre panettone a mezzo scalzo della tradizione piemontese. Sempre a Natale, un legante che trapassa tutto lo Stivale è il torrone, mentre dal Veneto arriva il pandoro, ma anche il mandorlato. In Trentino si spazia dallo strudel fino allo zelten, con farina di segale, zucchero e frutta secca. In Toscana c’è una contaminazione antica che si chiama panforte, con frutta secca, miele e spezie, che in Abruzzo diventa il parrozzo, un pane col cioccolato e nel Lazio il pangiallo con la farina di mais.



Al Sud si prediligono invece i dolcetti: a Napoli rococò, susamielli e mustaccioli, insieme agli ancor più celebri struffoli e zeppole. Nel Salento si celebra col pasticciotto, di pasta frolla e crema, mentre in Calabria non possono mai mancare i fichi ripieni di frutta secca, mosto e cannella. In Sicilia regnano alcuni grandi classici come la cassata e il torrone modicano, mentre cambiando isola e approdando in Sardegna ritorna la tradizione dei pani natalizi, con il pane e la sapa, e naturalmente il torrone di Tonara.

Cosa c’entrano i dolci con tutto quello che abbiamo detto all’inizio? Sono la sublimazione del dono. Come un conforto e, per alcuni, una compensazione. E’ dolce il Natale come un sorriso di bimbo. Anche di quel Bimbo che arriva inaspettato e all’improvviso e che in una notte che la tradizione ricorda stellata, ha sorriso all’umanità intera. Si ricomincia a vivere.



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