La tragedia di Prato mi riporta alla memoria pagine lette nell’infanzia, immagini di trasposizioni cinematografiche da Dickens, pitture d’interni squallide, cupe, sensazione di freddo, sporco, un’ingiustizia palpabile, una sofferenza che segna i volti dei poveri, degli sfruttati. Sappiamo che la stessa miseria la nascondiamo ai nostri occhi e coscienze, ma dilaga con le sue brutture nei sobborghi di tante metropoli in paesi lontani, dove si sopravvive con meno di un dollaro, dove ci si abitua a scavare nell’immondizia, quando non c’è neppure una moneta, dove le persone sono oggetti e strumenti, e il male viene accettato e subito senza neppure un grido, un sospiro.
Siamo storditi, davanti ai racconti di questa umanità umiliata e offesa, e con sollievo e orgoglio ostentiamo la nostra diversità, l’acquista consapevolezza di diritti inalienabili della persona. Poi succede che a Prato va a fuoco un capannone, zeppo di cinesi che lavorano stoffe. Che tagliano e cuciono quelle magliette, quei vestiti che finiscono in parecchi store frequentatissimi dal nostro shopping, o più probabilmente sulle bancarelle improvvisate del nostro struscio cittadino. Costano poco, durano poco ma sono all’ultima moda. Ce l’hanno detto, lo sappiamo che vengono confezionati in modo clandestino, in laboratori dove non c’è rispetto per chi lavora né sicurezza. Ogni tanto spunta qualche servizio maramaldo in tivù, che giustamente ci indigna.
Per una decina di minuti ci indigna, poi abbiamo già tanti problemi, e del resto non tocca a noi. Ci sarebbe uno Stato, ci sarebbero leggi, e controlli. Che discutiamo a fare di cittadinanza agli immigrati, di porte spalancate a tutti i disperati che si accostano alle nostre sponde, se non sappiamo garantire la dignità di chi accogliamo. Se lo costringiamo a diventare vittima e al tempo stesso complice dei suoi sfruttatori. Dici Prato e dici cinesi. Dici cinesi e dici sartorie improvvisate, che traslocano nel giro di una notte per sfuggire alle forze dell’ordine. Un giro impressionante che rifornisce mezza Italia e più in là, servendosi di ore di lavoro pagate due euro l’una, quando va bene, senza guardare la carta d’identità: se sono minorenni, meglio, hanno più paura e puoi pagarli di meno.
Nel capannone di Prato lavoravano e vivevano a decine, in bugigattoli ricavati da mura di carton gesso, lo spazio di un pagliericcio, una sedia. Come riscaldamento, una stufa. E grate alle finestre, quelle grate che hanno impedito ogni via di fuga, che hanno resistito al disperato aggrapparsi di chi cercava una salvezza. Hanno trovato resti di braccia rose dal fuoco, attaccati a quelle sbarre.
Ora attendiamo rigorosa ricerca dei responsabili e, come si dice, il corso della giustizia. Di fiducia ne abbiamo sempre meno, ci perdonino le autorità: accanto alla fabbrica andata a fuoco, ce ne sono altre, e altre sorgeranno sulle sue rovine. Prato è un modello, ma situazioni analoghe sono note e in qualche caso palesi in tante città. Che comunità di stranieri colonizzino quartieri, o vi siano costretti dalla necessità, in novelli ghetti, è intollerabile. Che esista una criminalità che organizza vigilanza e punizioni, una cupola “etnica” che si fa beffe delle nostre regole, è intollerabile. Che si pensi di risolvere i problemi dell’integrazione organizzando convegni, utilizzando il tema stranieri a fini partitici, è intollerabile. Come è intollerabile ripetersi che vengono a rubarci il lavoro: chi dei nostri figli accetterebbe condizioni di lavoro come quelle dei solerti operai di Prato? Chi di noi rischierebbe la vita, per mare o in una fabbrica-stamberga emersa da un dagherrotipo antico, o dalle disavventure di Oliver Twist?
Ai nostri politici che vanno in Cina a stringere necessari accordi economici, ai nostri manager e diplomatici che auspicano rapporti produttivi con la maggior potenza emergente, due parole due sull’esodo dei loro poveri, sull’esportazione delle loro bande criminali, sugli inesistenti controlli che regolano i flussi migratori, prima o dopo i brindisi di rito, potrebbero starci. Non abbiamo più il privilegio delle mafie. Né tutte le responsabilità, se accadono fatti come quelli di Prato, sono attribuibili a noi: ma la politica (e la politica non basta, ci vuole ogni autorità credibile ascoltata dalla gente), esorti tutti noi a guardare, a non distogliere lo sguardo da quei morti, da quei padri e madri e ragazzi dai volti sconosciuti che nascostamente abitavano una ridente cittadina della nostra Italia. Per cancellare l’omertà (quanti pratesi sapevano?) per esigere che ogni uomo nella nostra terra la abiti a testa alta, considerato come persona, tutelato dalle nostre leggi, così belle, a parole. Meglio parlare di meno di accoglienza e fare senza clamore qualcosa di più. Ministro Kyenge, lei che è giustamente sensibile, lei che è deputata ad occuparsi del caso, dopo le dichiarazioni sconcertate, dopo le visite di rito sul luogo, ne faccia qualcun’altra, a sorpresa. Non si adatti a deporre corone e tenere discorsi, diserti i convegni. Giri qua e là i suburbi, scenda nei sottoscala, si faccia aprire i magazzini, senza preavviso. E ci racconti, perché l’ingiustizia sia conosciuta prima di trasformarsi in tragedia.