Malgrado la sconfortante apertura, all’insegna di una società “sciapa ed infelice”, il 47° rapporto Censis non è pessimista come potrebbe sembrare. È vero, le evidenze riportate nella nuova edizione del lavoro, presentata ieri presso la sede del Cnel, sono poco incoraggianti: la disoccupazione generale e quella giovanile in particolare cresce, così come la precarietà, reale o percepita; il numero di italiani trasferiti all’estero raddoppia nell’ultimo anno; un quinto dei giovani meridionali abbandona la scuola, e il 21,7% degli italiani sopra i 15 anni possiede al massimo la licenza elementare. E ancora, le famiglie fanno fatica a pagare le bollette, le tasse, le rate del mutuo; e tra le imprese sono ancora ridimensionati i settori produttivi tradizionalmente forti, con costruzioni, manifattura, logistica e commercio in calo e un artigianato sempre meno diffuso. Si è rotto “il grande lago della cetomedizzazione”, è scomparsa la mobilità sociale verso l’alto, resiste solo quella verso il basso.



Eppure, il sistema ha tenuto: il crollo non c’è stato, le strategie di sopravvivenza adottate hanno funzionato, e in qualche caso sono diventate un modello stabile. È il caso dei consumi familiari, inizialmente ridotti per necessità, poi profondamente rivisti – anche da chi avrebbe potuto permettersi di incrementarli – in nome di una nuova sobrietà e di una rinnovata propensione al risparmio (incoraggiata anche dalla confusione fiscale, che non consente una pianificazione a lungo termine). E poi: se è vero che la famiglia è sempre meno allargata, con una dimensione media che supera di poco le due persone, la dimensione della rete familiare complessivamente intesa supera invece gli otto individui, tenuti insieme da un’aggregazione tuttora funzionante, ad esempio in tema di welfare. Ancora, le piccole imprese diminuiscono di numero, ma aumentano il proprio export, mentre recuperano i piccoli esercizi commerciali (+1% tra 2009 e 2013), il commercio online (+20% tra 2009 e 2013) e gli ambulanti (+8% nello stesso periodo), e si fanno strada nuove reti d’impresa, anche trasversali rispetto ai settori merceologici.



Grazie all’argine delle famiglie e delle imprese, ha detto il direttore generale del Censis Giuseppe Roma, lo smottamento verso il basso è finito: di più, si intravedono nuovi “sali alchemici”, in grado di far ripartire reazioni virtuose e ridare sapore al tessuto sociale. Si tratta delle donne, degli immigrati, dei giovani: ma non quelli che popolano certi facili slogan. Le donne sono le imprenditrici, in decisa crescita alla guida delle aziende (a metà 2013 sono il 23,6% del totale), e le libere professioniste (+3,7% tra il 2007 e il 2012), che insieme rappresentano un “nuovo ceto borghese produttivo”. Gli immigrati sono i piccoli imprenditori (i “padroncini” di qualche tempo fa), aumentati a partire dal 2009 del 16,5% e cresciuti ancora nell’ultimo anno, tanto da iniziare a sostituire gli italiani; gli stranieri che lavorano in proprio, anche con dipendenti italiani, sono aumentati del 14,3% negli ultimi 4 anni, mentre gli italiani diminuivano del 3,6%. I giovani trasferiti all’estero (il 54,1% del totale, nell’ultimo anno) non sono semplicemente “cervelli in fuga” o “poveri emigranti”, ma i “navigatori del nuovo mondo globale”; certamente delusi dall’imbarbarimento della società italiana e dalle scarse prospettive professionali, ma soprattutto portatori di un preciso progetto di vita, da realizzare ovunque sia possibile – e dunque senza escludere la possibilità di un rientro nei confini nazionali.



Non mancano poi le opportunità da cogliere, in particolare nel prossimo futuro: i grandi eventi internazionali, culturali e produttivi, dall’Expo milanese del 2015 alla candidatura a città europea della cultura per il 2019. Eventi che non vanno interpretati come semplici occasioni turistiche, o peggio ancora come fonti di sovvenzioni pubbliche a perdere, ma come veri volani di crescita e di trasformazione del territorio. L’edilizia innovativa, con le grandi opere, la rigenerazione urbana e il recupero del patrimonio storico-artistico, va incoraggiata e promossa anche nel nostro Paese, come già all’estero, approfittando virtuosamente di occasioni analoghe alle Olimpiadi e agli altri grandi appuntamenti che hanno rivitalizzato le grandi metropoli europee e internazionali.

Basta, insomma, parlare di crisi, di crollo, di “baratro”: un concetto tanto indistinto, ha detto il presidente del Censis Giuseppe De Rita, che dopo averci fatto i conti per anni gli italiani hanno deciso di rimuoverlo, e di tirare avanti. Il Censis lancia un forte atto d’accusa verso la classe dirigente italiana che ha scelto di drammatizzare, di enfatizzare l’allarmismo, per fondare la propria legittimazione. Il timore del conflitto, la ricerca della stabilità a tutti i costi ci hanno condotti alla sospensione, al congelamento, alla “reinfetazione”: un ritorno allo stato fetale che allo stesso tempo significa rimozione delle responsabilità, tanto sociali e civili quanto politiche. Il risultato è sotto i nostri occhi: l’avanzata dei vari “popoli” – da quello arancione a quello della Rete, verrebbe da aggiungere – è figlia dell’antipolitica, intesa come reazione infantile, disordinata, irresponsabile.

Impossibile cercare in questi fenomeni, così come in quelli politici e istituzionali, una nuova coesione: l’unico traguardo possibile è la connettività, intesa come legame orizzontale, come articolazione tra i soggetti, come messa in comune tra i vari sottosistemi della vita collettiva. È a questa connettività che il Censis affida il suo auspicio finale: la “crisi antropologica” prodotta dall’individualismo, dal particolarismo, dalle piccole furbizie “ha raggiunto il suo apice, ed è destinata a un progressivo superamento”.