A un ebreo come me, le dimissioni di Papa Benedetto XVI fanno dispiacere ma non creano sconcerto o meraviglia. Il dispiacere è ovvio. Papa Benedetto ha dimostrato in molti modi amicizia per il popolo ebraico, proseguendo sulla strada del Concilio Vaticano e di Giovanni Paolo II: non solo nelle sue visite in sinagoga alla comunità ebraiche di Roma e di altre città, ma anche con il suo magistero. Il che non significa che vi sia stata piena sintonia su ogni cosa fra mondo ebraico e Chiesa durante il suo pontificato – per esempio non sull’atteggiamento nei confronti del conflitto arabo-israeliano, sui tentativi di riassorbire il dissenso con i seguaci di Monsignor Lefebvre o sui passi compiuti per la beatificazione di Pio XII. Ma il rispetto personale, la stima, la comprensione non sono mai venuti meno in questi anni: credo di poter dire da entrambe le parti. A noi ebrei mancherà la figura di un Papa teologo, biblista, filosofo, pensatore raffinato e sottile e anche quella di un vescovo di Roma sensibile, sinceramente preoccupato per i grandi problemi del nostro tempo, ben consapevole della delicatezza decisiva dei rapporti fra due religioni da sempre implicate in una difficile fratellanza fra diversi.



Le dimissioni ci rattristano, ci lasciano ansiosi per una successione che sia all’altezza; ma come scrivevo non ci sconcertano, non ci appaiono scandalose. Nella vita ebraica i ruoli più rappresentativi hanno infatti tutti una scadenza; l’eventualità che un maestro spirituale o un leader anziano possa decidere di rinunciare a svolgere un compito che senta ormai divenuto superiore alle sue forze ci appare del tutto naturale. Questa mancanza di sorpresa risulta forse più comprensibile se si pensa che i nostri rabbini non sono e non furono mai consacrati come sacerdoti, e sono rispettati e ubbiditi invece in quanto insegnanti e giudici: la loro investitura (in ebraico: semichà) è la sanzione di un percorso di studi, che richiama nel nome l’imposizione delle mani con cui Mosè proclamò suo erede Giosuè, ma non ha alcuna pretesa di ispirazione divina.



Che la Chiesa cattolica pensi invece i suoi sacerdoti secondo una categoria teologica diversa, come investiti direttamente da un dono spirituale che non dipende da loro ed è incancellabile, spiega perché le dimissioni del Papa possano aver prodotto in alcuni fedeli cristiani un qualche sconcerto, anche se non mancano i precedenti e non vi è nulla nel diritto ecclesiastico che le impedisca.

Il mondo ebraico non solo naturalmente rispetta l’autonomia interna della Chiesa e nutre  comprensione sincera per una scelta che dev’essere stata certamente molto sofferta da parte del pontefice, ma la comprende anche come naturale.



Vorrei fare un’ultima osservazione, più da studioso delle comunicazioni di massa che da ebreo. Eccola. Vi potrebbe essere in qualcuno la tentazione di contrapporre questa scelta alla difficilissima ultima parte del regno di Giovanni Paolo II, quando quel Papa non nascose la sua malattia e lo sforzo terribile che gli costava a causa di essa portare avanti il suo ufficio.

Per certi aspetti è evidente che le scelte di Giovanni Paolo e di Benedetto sono diversissime. Ma esse pongono in sostanza lo stesso problema, quello della debolezza umana, della fragilità, del dolore di fronte all’inesorabilità del dovere e vi rispondono entrambe nel senso di non occultare questa condizione, che fa certamente parte dell’esperienza umana più bruciante. Fino a pochi decenni fa i potenti, i sovrani e con essi i Papi erano obbligati a nascondere questa fragilità, dietro la coltre formale dell’etichetta o governi delegati o semplicemente stando nascosti nei loro palazzi quando erano troppo malati o deboli per interpretare il loro ruolo.

Sono stati probabilmente i mezzi di comunicazione di massa a intaccare questi filtri, permettendo a tutti di vedere in faccia, in primo piano, quasi fossero da vicino i governanti e i presidenti e i Papi. Ma è stato Papa Giovanni Paolo il primo a capire quale straordinario strumento di testimonianza si celasse in questa opportunità tecnologica e che forza si potesse sviluppare nella visione pubblica delle debolezza e della fragilità di un uomo come lui. Senza questo esempio di grande coraggio personale nel rifiutare la protezione del cerimoniale e della lontananza, il gesto di Benedetto XVI non sarebbe stato probabilmente possibile. Esso però richiede a sua volta un grande coraggio benché diverso: quello dell’umiltà di dire di non essere in grado di svolgere il proprio compito, ma ai miei occhi sembra altrettanto prezioso e consapevole.

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