Ho appreso la notizia dalla telefonata di un vecchio compagno che manifestava a me tutto il suo sgomento, pur non essendo credente, chiedendomi qualche possibile interpretazione.
Le dimissioni di Papa Ratzinger sono, al di là di tutto quello che si potrà dire a commento, un evento drammatico che introduce una frattura nell’apparente quietismo del mondo religioso e politico, inserendosi nello scenario della crisi di civiltà che stiamo vivendo come qualcosa di per sé misteriosa e sconcertante. Solo con molta difficoltà ho seguito la televisione, con un fortissimo coinvolgimento emotivo e la sensazione di partecipare ad un evento a partire dal quale la vita dell’intero mondo sarà diversa. Mi sono venute in mente mille immagini e mille pensieri: ho ascoltato i primi commenti che provavano a dare spiegazioni razionali di questo gesto così dirompente con le difficoltà di un uomo di fronte alla complessità dei temi del momento, una sorta di dichiarazione di impotenza per l’impossibilità di prendere decisioni su problemi dirimenti relativi alle forme stesse della nostra civiltà, come la rappresentazione della nascita e della morte. Non credo che questa lettura rinunciataria di un Papa stanco colga nel segno.
Ascoltando la notizia, a me sono venute in mente subito le parole durissime che Papa Ratzinger pronunciò nel corso della Via Crucis che si svolgeva mentre Papa Wojtyla agonizzava nella sua stanza. Ero rimasto colpito da quella Via Crucis perché rappresentava l’intenso dolore che un uomo di fede provava di fronte alla dissacrazione mercantile del tempio, e mi sono venute in mente anche le pagine che Papa Ratzinger ha dedicato alla vita di Gesù, specie nel secondo volume, dove si ricostruisce il rapporto tra Gesù e Gerusalemme e si interpreta la profezia della distruzione del Tempio e l’amara riflessione che Gerusalemme non ascolta i suoi profeti. Mi sono trovato a recensire quel libro e a commentare questa parte nel contesto della lettura evangelica del Papa come interpretazione di una visione prevalentemente spirituale del rapporto tra l’uomo e Dio, in cui persino il Tempio si può trasformare in un luogo di mercati e di chiacchiere. Ho scritto allora che in questa parte della sua riflessione si poteva leggere l’intenzione di riaffermare che il rapporto con Gesù è un rapporto personale e che la pratica rituale trasformata in pura esteriorità finisce col dissacrare ogni significato del Tempio e che perciò il Tempio è da costruire nella relazione personale con il Cristo. Mi sono venute alla mente anche le pagine in cui si commenta il lavacro dei piedi degli apostoli come testimonianza della enorme novità di un Signore che si fa Servo degli altri e fraternamente si accosta ai loro corpi.
Ho sempre avuto, in contrasto anche con tanti miei amici preti, l’idea che Ratzinger fosse un grande innovatore rispetto all’eredità ecumenico-spettacolare di Papa Giovanni Paolo II. Il suo essere un intellettuale e un teologo me lo ha reso nel corso di questi anni più familiare, perché sentivo nei suoi interventi, nelle sue encicliche e nelle sue parole il fortissimo bisogno di ristabilire l’enorme differenza che separa la fede in Gesù Cristo da ogni generico sentimento religioso che finisce col contaminare tutto ciò che rappresenta manifestazioni di culto verso un’autorità suprema ed estranea. 



Debbo aggiungere una riflessione molto laica e forse persino fuori luogo, che mi faceva accostare la figura di Ratzinger al Papa rappresentato nel film di Moretti che rifiuta di accettare un’investitura così impegnativa non per mancanza di fede ma per troppa fede, rifiuto che lo porta a scegliere la via della frequentazione immediata e diretta delle donne e degli uomini che si incontrano per la strada: non un Papa che si chiude nell’aura sacra di un palazzo inavvicinabile, ma un uomo destinato a testimoniare nella vita del mondo che, senza l’umiltà della rinuncia al potere, non si riesce a entrare nel cuore degli uomini.
L’insistenza di Ratzinger sulla carità e sull’amore, sforzandosi persino di reinterpretare l’eros greco in senso filosofico, è stata a mio parere travisata nel tentativo di vedere in lui un intellettuale preoccupato di dialogare con Habermas per tracciare la via razionale alla fede nel suo Gesù Cristo. Credo che, proprio per questa sua vocazione alla testimonianza, abbia incontrato molte difficoltà nel gestire i rapporti con la Chiesa istituita. Credo che il suo affanno principale non fosse dedicato alla conversione dei non credenti ma piuttosto alla conversione della stessa Chiesa di cui è stato il capo, affinché essa riacquistasse la semplicità e la freschezza di un messaggio attuale in aperto contrasto con l’edonismo, il consumismo e il cinismo che dominano in Europa e nella società occidentale. 
Sotto questo profilo il gesto del Papa non mi è apparso come l’abdicazione di un vecchio stanco, ma come un atto di sfida alla comunità cattolica: cominciare davvero a rinunciare al potere per mettere la propria vita a servizio dell’amore del prossimo. In questo mondo così volgarmente spettacolare, dove la grande politica si è ridotta a meschino scambio di volgarità televisive, dove è stato profanato anche lo spazio pubblico dell’agorà, il Papa ha dovuto fare un gesto che insegnasse a tutti la lezione del riconoscimento dei limiti dell’essere umano e della ricerca di altre forme di comunicazione, oltre gli stereotipi del nostro linguaggio mediatico e la trasformazione in intrattenimento anche degli eventi più terribili come un terremoto o un’alluvione catastrofica. 
Credo che in questi anni di pontificato questo Papa abbia sentito fortemente la solitudine di chi non riesce a comunicare il Segreto della vita di cui si sente depositario. Un Papa solo è stato già oggetto delle mie riflessioni durante le diverse campagne di stampa in cui anche la Chiesa è apparsa lacerata da divisioni e trascinata sul terreno dello scandalo, un Papa tradito persino dal proprio cameriere privato. Il Papa che si ritira dalla scena del potere regale, che è stato sempre il modo formale di tributare gli onori alla sua funzione, mi fa pensare all’Orto degli Ulivi, dove Cristo si chiude nella solitudine pensosa di chi sa in anticipo che anche i suoi discepoli lo tradiranno: nel modo di consegnarsi ai militari che lo arrestano, invitando gli apostoli a non usare le armi, c’è l’indicazione che la forza del potere non serve a combattere il Male che si presenta ad ogni istante della vita. 



Non ho assolutamente interesse alla ricerca che può confermare o smentire alcuni racconti dei Vangeli, ma certo il sudare sangue del Cristo mostra tutta la sofferenza carnale a cui è esposto colui che viene tradito nelle ultime ore della propria vita. L’umiltà richiede molto più coraggio dell’arroganza, richiede molta più forza del potere, perché anzitutto è una disposizione dell’animo verso se stessi, la rinuncia alla fantasia demoniaca dell’onnipotenza in cui, nei millenni, grandi condottieri e capi della Chiesa e dell’Impero sono incappati. L’ultima considerazione di questo gesto – che penso dovrà mobilitare tutte le intelligenze ad andare oltre le apparenze esteriori e i formalismi interpretativi – va a mio avviso rivolta anche all’arroganza dei Governanti, che pensano di potere disporre della terra e del pianeta come una proprietà assoluta, senza neppure preoccuparsi delle generazioni future. Penso che sia una lezione di stile verso tanti intellettuali che si arrogano unilateralmente il potere di garantire la verità dei loro discorsi, considerando tutto il resto del popolo pura plebe ignorante. Se gli ultimi davvero saranno i primi, in un altro Regno e in un’altra epoca dell’umanità, il punto di partenza dovrà sicuramente essere la rinuncia all’onnipotenza dell’io e all’arroganza della ragione. Penso però che anche queste mie parole, dettate principalmente da uno stato d’animo più che da una riflessione razionale, avranno in me la risonanza di una riapertura totale del problema del senso della vita.

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