Un operaio edile della provincia di Trapani, disoccupato dal 2000, si è impiccato a una trave sotto casa. Di recente aveva scritto al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e al segretario della Cgil, Susanna Camusso, raccontando loro tutta la sua sofferenza per la mancanza di un lavoro. Pubblichiamo un commento dell’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Luigi Negri. Di fronte al mistero della vita come al mistero della morte è necessario un rispetto carico di silenziosa compassione. Nessuno di noi, meno che mai il sottoscritto, può pretendere di dare un giudizio su questa immane tragedia che ha sconvolto la vita di un uomo, perché ha spezzato il suo equilibrio psicologico, la sua capacità di reazione ragionevole e libera di fronte alle circostanze.



Questo silenzio rispettoso del mistero della vita e della morte, non può non diventare un tentativo di comprendere che cosa sia accaduto e perché. Lo ripeto, senza la pretesa di nessun giudizio. Tutt’al più cercando di leggere i risvolti antropologici e colturali di un evento grave, ma che pare destinato a diffondersi, in una situazione di tragedia nazionale come quella in cui viviamo. Non è il primo caso, ma temo che non sarà neppure l’ultimo. In una situazione come questa emerge come una sostanziale incapacità di stare di fronte al mistero della vita e di saper rispondere a questa domanda: “Che cos’è la vita? Che cos’è la persona? Che cosa significa per una persona vivere?”.



Il mistero della vita è il mistero di una domanda di senso, di bellezza, di bene e di giustizia. E’ un insieme di domande che, come ci insegnava monsignor Giussani, aderiscono alla natura profonda del cuore dell’uomo. Una domanda che sembra assente in avvenimenti come questi, quasi che la persona sia ridotta a una sola dimensione, peraltro importantissima e decisiva, come quella del lavoro, ma che non può esaudire certo la totalità della vita e del cuore dell’uomo. Non il lavoro dà senso alla vita, ma il significato della vita dà valore al lavoro. E’ la splendida, semplicissima e radicale formulazione che noi scopriamo nelle pagine indimenticabili della Laborem Exercens di Giovanni Paolo II.



L’uomo non vive né per lavorare né per mangiare né per dormire né per abitare in un determinato territorio né per avere una responsabilità sociale. Fa tutto ciò per esprimere il suo impegno con se stesso e con il mistero della vita, per rispondere alla grande domanda di senso. Se si toglie questa profondità della vita, le sue dimensioni rimangono senza radici e nuotano sulla superficie dell’esistenza umana. Qualcuna cerca di diventare totalizzante, magari ci riesce ma resta un’evidente menzogna. “L’uomo vive per il mistero di Dio, naturale desiderio di vedere Dio”, diceva San Tommaso. 

E Pascal aggiungeva: “L’uomo supera infinitamente l’uomo”. Infatti nessuna delle dimensioni della sua vita, personale, sociale, intellettuale, morale, etica ed operativa, esprimono adeguatamente il mistero profondo della sua vita. E’ questo mistero che sembra non esserci più in coloro che si ammazzano perché è interdetta loro quella grande dimensione della vita che è la produttività, il lavoro, o con una parola più umana la creatività. Ma lo stesso si può dire di coloro che ammazzano e si ammazzano per la fine improvvisa di un rapporto affettivo, psicologico, sessuale, che è stato perseguito per anni come la ragione ultima dell’esistenza e che quando viene meno travolge e nullifica la vita dell’uomo e della donna. La società è in crisi non perché sono in crisi aspetti importanti ma secondari, bensì perché a essere messa in discussione è la struttura profonda dell’essere, dell’uomo che non conosce più il senso delle cose, e che se lo conoscesse non si ammazzerebbe. La persona deve inesorabilmente e inesauribilmente cercare il senso della vita.

Devo aggiungere quella che avverto come un’osservazione lancinante per la mia coscienza di uomo, ancor prima che di cristiano o di vescovo. Attorno all’uomo di oggi che vive questa tragedia non esiste solidarietà. A essere venuto meno non è innanzitutto il lavoro, ma la grande categoria della gratuità, la possibilità che l’uomo incontri nella sua vita, nei momenti più difficili, amici veri, capaci di condividere la loro vita tentativamente in tutti i suoi aspetti, da quelli materiali a quelli culturali e a quelli affettivi. E’ la solitudine il cancro di questa nostra società, lanciata al massimo del benessere individuale, ma terribilmente barbara, in questa incapacità di farsi carico della vita dei propri fratelli uomini.

Non si risolvono tecnicamente le questioni del lavoro, dell’amore, dell’affetto, dell’educazione, della società e della politica. Per affrontare questi problemi saranno necessarie anche determinazioni di carattere pratico, tecnico, ma è innanzitutto immettendosi nel grande flusso della gratuità umana che l’uomo è aiutato ad affrontare le sue problematiche. La cosa più terribile è la solitudine nella quale si consumano queste tragedie. E la cosa più terribile è che questo grido a una compagnia che nel lavoro lo aiutasse a ritrovare la sua dignità, l’operaio che si è suicidato l’abbia rivolto a due punti istituzionali che possono garantire tutto meno che la gratuità dei rapporti.