In questi giorni è importante leggere i giornali. Ieri, anzitutto. Sapevamo già tutto, la notizia del secolo era stata dettata da una giornalista dotta in latino alle agenzie di tutto il mondo, lunedì, ore 11.40, più o meno. Ma ci confortava, nello smarrimento, nelle tante domande che devono restare aperte, scorrere le prime pagine, a rendere memorabile quell’11 febbraio, a fissarlo nella storia personale e del mondo. E invece, banalità, travisamenti, interpretazioni frettolose e fuorvianti. La  Stampa: “L’addio del Papa deciso un anno fa”. Davvero? O solo qualche mese? E magari con un’accelerazione improvvisa? O non era una decisione, ma un pensiero, reso inderogabile da qualcosa che non conosciamo? Il Foglio, tramutato con amabile  e reverente ironia ne Il Soglio, è autoreferenziale: “Il prevedibile addio del professor Ratzinger”. L’avevano previsto, beati loro.   Miliardi di uomini attoniti erano evidentemente distratti o poco acuti. Poi, quel “professore”: un omaggio all’intellettuale, ma un Papa è altro. 



Il Corriere apre le virgolette: “Non ho più le forze, perdonatemi”. Ma dopo quella virgola, c’erano altre parole, e l’imperativo, più una preghiera che un ordine, era riferito ai “difetti” personali, diceva letteralmente il Papa, non al gesto della rinuncia al regno. Quel titolo accentua la debolezza, il cedimento, da confessare come una tentazione umanissima. Ma non sono parole da Papa, a meno che piaccia la desacralizzazione, la diminutio di questa figura riconosciuta tra le poche autorevoli per il mondo intero. Attenzione, è apparentemente l’inchino ad un’umanità piena, capace anche di sospirare la propria incapacità.  Ma è la sua riduzione all’uomo comune, che non tiene conto di quel sigillo, “vicario di Cristo”, cui è stato dato il compito di Pastore universale. 



Più drastico Il Giornale. “Amen”. E sopra: “Il Papa scende dalla croce”, riprendendo una frase forse inopportuna del cardinal Dziwisz, che suonava come un confronto impietoso, e una condanna, anche s è stata frettolosamente spiegata e ridimensionata. Quell’Amen è la pietra tombale su un pontificato, la traduzione del senso comune che dopo un Papa se ne fa un altro, o è il “fiat” di Cristo, di Maria, “sia fatta la volontà del Padre”? Sono due accezioni ben diverse, e noi purtroppo usiamo soltanto la prima. Solo Avvenire fa presagire quel “fiat”. “L’umiltà di Pietro”. La sua dipendenza  dal disegno di un Altro, cui conformarsi con arrendevole dedizione. Basta che quell’humilis non ricordi troppo e soltanto la terra, cui l’etimologia lo lega. Un Papa, lo crediamo, dobbiamo crederlo, ha gli occhi rivolti al cielo. Ma per chi non riesce a tenere gli occhi fissi in alto, è più facile ridurre la sua grandezza, farne uno di noi, come noi, che siamo tano incapaci di portare i pesi e le croci. 



È il senso del titolo de Il Tempo, forse il più immediatamente azzeccato e efficace. “Benedetto uomo”. Un’esclamazione, e un’affermazione insieme: povero Papa, quante te ne hanno fatte, e insieme, sei un uomo come noi, grazie di esserti abbassato al nostro livello di mendicanza. È proprio così? Il cristianesimo ci insegna che la peggior umiliazione è l’esaltazione suprema, che l’abbassarsi è segno di potenza. Meglio Il Fatto Quotidiano, allora: “Benedetto coraggio”. Ma anche qui, coraggio di che? Ci pare di capire, di lottare contro una Chiesa corrotta e infedele, quasi l’atto eroico di un combattente solitario e incompreso. Eppure, questo Papa mite ha ringraziato i suoi amici, i suoi collaboratori, e non ha mostrato alcun sdegnoso disprezzo per la Chiesa che ama, e che è certo, non sarà in balia del male. Libero va solo sul politico: “Gli intrighi di palazzo fanno dimettere il Papa”. È possibile, ma è la spiegazione unica ed esaustiva? Meschine manovre di curia  possono indurre alla rottura di una secolare tradizione, al pericolo di uno sconforto tra tutti i credenti?

Le interpretazioni  politiche occupano gli spazi dei quotidiani di oggi, pur ridotti, perchè c’è Sanremo, e qualche colpo dei magistrati in campagna elettorale. Ricominciamo. La Stampa: “La scelta di Ratzinger contagia i cardinali”. Un virus, urge un vaccino. Corriere della Sera: “Tutte le insidie di un interregno”. È il contagio anche qui, e poi le letture di  scrittori, notisti politici, tramutati in esperti vaticanisti e teologi. Manca solo dan Brown. Su, che l’interesse è scovare il marcio, esasperare  la contrapposizione, la lotta tra faide. Si aprono le scommesse, e almeno i bookmakers ci puntano dei soldi. 

Sarà africano, “ci vuole un papa del Terzo Mondo”, dice Il Messaggero. Ma  il vero interesse si concentra a pag. 7, meno apapriscente; “Il centro si ritrovò unico interlocutore della Chiesa scossa”, e Casini, in trono papale dorato, sorride nella fotografia. Quanti voti hanno “le truppe del Papa”, si chiede Libero? Domanda oziosa, Il Giornale sa già tutto: “Il nuovo Papa sarà conservatore. Lo decideranno i cardinali italiani”. Divisi in “partiti, correnti, corvi”, racconta Il Fatto. Ma quasi quasi meglio loro, se è vero che “Il Papa è stato indeciso su tutto, scandali finanziari, preti pedofili, gay. Questo l’occhiello sul titolo elegante “Gli errori di Ratzinger”. Repubblica è più irriverente, “Il Celeste al capolinea”… Ah, no, si riferiva a Formigoni. C’è anche qui il giallo dell’enciclica, quello delle auspicate dimissioni immediate, eccetera. Scelgo un editoriale di Barbara Spinelli, chi l’avrebbe mai detto. Per un concetto: “tutti vogliono chiudere le acque in fretta sopra il folle volo”. Vogliono ricucire la faglia, moderare l’inaudito, la svolta tettonica. E cita Montale, “Il nulla alle spalle. Il vuoto dietro di me”. Per fortuna non è vero: il Papa è solo davanti a Dio, come ognuno di noi, lui di più: ma non è solo affatto, non ha il vuoto alle spalle. È ben custodito, dall’alto, e ha tanti  tanti fedeli che pregano per lui, oggi di più.

Avrei voluto un titolo, e molti articoli, che non pretendessero di spiegare tutto. Che aprissero a una possibiltà, la sola in grado di spalancare il cuore, e  aiutare a comprendere un atto altrimenti incomprensibile e doloroso. Il Papa sa. Il Papa ha agito così per un bene supremo, e il suo martirio, la sua croce, sono questa rinuncia, necessaria, per l’unicum necessarium, che la fede sia ancora viva sulla terra, quando Lui tornerà. Il Papa sa, deve sapere, o almeno è ragionevole che sappia. A noi non è dato saper tutto. Forse il Papa sa che la Chiesa è in pericolo, forse sa che ha bisogno di questo sacrificio. Sacrum facere. Sta facendo qualcosa di sacro, per il suo bene, per il suo destino. Forse c’è bisogno di un uomo giovane e forte e prestante, per far fronte ai tempi che verranno, e Dio non voglia che siano troppo duri. Per com’è la Chiesa al suo interno. Dilaniata da lupi voraci, come è pur stato detto. O soltanto confusa e instabile, e sbandata. O perché il nemico verrà dall’esterno, e avrà bisogno di militanza. Un mistero. Siamo così abituati ai misteri che la Chiesa ci ha insegnato ad accettare, e che dimentichiamo con sventata superficialità. La Trinità. L’incarnazione. La resurrezione. I Novissimi. I Sacramenti. E non sappiamo star davanti al Mistero diritti, capaci di fissarlo, di spalancarsi a ciò che potrà rivelarci. Senza subito farlo piccino e inscatolabile nelle nostre traduzioni abborracciate. 

Certo, i giornali non sono trattati di teologia, non possiamo pretendere, e non parlano solo ai cristiani. Eppure, tanti pretendono di spiegarci la verità, dei gesti, delle parole, perfino degli animi.  Un pugno nello stomaco, la notizia dell’11 febbraio. Così dev’essere. Chiede riflessione, parole pensate e poche, preghiera, per chi ci crede. Rispetto, e domanda. Solo gli anni a venire faranno intravvedere una risposta.